Non inserirò foto neanche nell’articolo, tanto le avete già viste, magari le avete anche condivise, o perché vi sembrava la cosa giusta da fare “per sensibilizzare”, o perché siete leghisti e avete salvato sul desktop l’intero album, per masturbarvici con calma in un secondo momento. Un fugace amplesso solitario da due-tre colpi, uno di quelli a cui ormai vostra moglie è tristemente abituata.
Chi ha postato o commentato quegli orridi scatti spinto da qualcosa di diverso da un bilanciato mix di bestialità e ritardo mentale, come dicevo, sostiene che sia un dovere mostrare un certo tipo di immagini per colpire allo stomaco i propri contatti. Eppure non riesco a non vedere qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo, mi ricorda le immagini degli animalisti che condividono a raffica foto di mattatoi e di beagle in gabbia, come se il problema degli allevamenti industriali si potesse risolvere con un like, come se la sperimentazione animale sia superabile alzando la voce e premendo “condividi”. Che problema avete, signori? Cosa non basta nell’espressione “bambino morto” da costringervi a mostrare delle foto? La parola non fa più effetto?
Magari è così: la reiterazione dell’orrore, il mostrare a più riprese l’immagine anziché la notizia in sé, rischia di portare all’assuefazione rispetto alla morte. Impigrisce ulteriormente il nostro cervello e la nostra etica, già così satura di morti orripilanti da portarci a sobbalzare giusto di fronte a una foto, scorrendo pigramente oltre le notizie e le informazioni sensibili, degradando i morti annegati al livello dei gattini animati in una gif.
Il problema dei migranti è complesso, il dibattito reale va ben oltre i due estremi “affondiamo i barconi” e “accogliamoli tutti”, e non è una foto a fare la differenza: se qualcuno è rimasto impassibile di fronte alle migliaia di morti orribili cui abbiamo assistito dall’inizio dell’anno, non sarà certo un link con un’immagine a fargli cambiare idea. Parafrasando Stefano Iannaccone, l’impatto emotivo di certe immagini non ha effetti concreti, fra poche ore ci saremo già scordati tutto, e nessuno avrà fatto niente per risolvere il problema.
Quindi, riflettiamo: abbiamo davvero bisogno della foto? La frase “decine di migranti morti in un tir” non basta? Non è sufficiente leggere “Cinquanta cadaveri nella stiva di un barcone” perché il voltastomaco non abbia il sopravvento su tutto il resto?
Dobbiamo davvero spendere ore a litigare col razzista di turno intorno a una foto mostruosa, in una sorta d’inutile rissa in cui alla fine nessuno esce cambiato, e il cadavere resta là, cieco e abominevole, un morto fra tanti che verrà dimenticato alla prossima soubrette che farà una spaccata venuta male?
Anziché accodarci alla moda di condividere foto shock, proviamo a riappropriarci del dialogo, della diffusione di concetti più profondi della repulsione, proviamo a reinserirci attivamente nel dibattito politico, non tanto su Facebook quanto nei luoghi preposti; studiamoci bene i programmi di chi voteremo alle prossime elezioni e scegliamo con cura chi votare, e usiamo le nostre energie per ostacolare in ogni modo chi, da queste tragedie, ricava voti e consenso. Altrimenti il rischio è quello di diventare, se non nei contenuti almeno nei modi, uguali a loro. E non è una bella prospettiva.
[M.V.]
stesso motivo per cui ho deciso di abbandonare faccia di libro, non ce la facevo a togliere l’amicizia a vecchie zie inconsapevoli del danno che facevano con i like e le condivisioni…