Parigi non è Beirut

Un’analisi diversamente sintetica di Franco Sardo

Sembra assurdo doverlo dire, ma per alcuni evidentemente non è chiaro: Parigi non è Beirut, Beirut non è Parigi.

Sui social network italiani di questi giorni sono fioccati i post e i commenti di sedicenti animi sensibili che citano pressapoco così: “Gne gne gne, fate tanto le frignette per Parigi ma di Beirut non ve ne frega un cazzo!” Ora, sgombriamo subito il campo da qualsiasi dubbio: a loro non gliene frega un cazzo di Beirut. Non gliene frega un cazzo di Beirut né di Parigi. O meglio, non vogliono che gliene freghi un cazzo e ci riescono, poi vedremo come.

Badate bene, non mi riferisco alle persone realmente attente alla situazione geopolitica mondiale e in particolare al bacino mediterraneo o che in ogni modo sono sensibili, per vari motivi, a ciò che è accaduto a Beirut. Né mi riferisco allo scandalo suscitato da Facebook e dagli altri colossi dell’industria digitale nel momento in cui decidono di coprire con le loro azioni pseudosolidali gli attentati di Parigi ignorando completamente Beirut (anche se la loro risposta lega indissolubilmente il loro comportamento al nostro, ma anche questo lo diremo poi). Per non parlare del ribrezzo nel sentire Papa Francesco condannare senza se e senza ma una violenza che quando è stata rivolta verso autori satirici aveva invece, a sua cristianissima opinione, una giustificazione ben identificabile, senza comunque riferirsi a Beirut. Mi riferisco insomma a chi, senza che gliene sia mai importato nulla delle decine e decine di attentati che ogni anno sconvolgono il Medioriente e l’Africa, tira fuori un presunto egualitarismo emotivo colmo di pietas da tasto condividi, tempismo perfetto e spirito da contrinformazione con l’umanità ben conficcata fra la suola della scarpa e la merda che hanno pestato cercando di attirare l’attenzione sabotando il dolore per una strage, buttando in mezzo, come fosse un’arma retorica, altro dolore di altra strage.

Immaginatevi di essere al funerale di un caro amico morto assassinato, con cui avete condiviso molti ricordi e molte idee, e ne state affrontando la perdita, sconvolti per il modo in cui è stato ucciso. Siete lì che avete a che fare con il vostro stupore misto a dolore quand’ecco vi si avvicina un tizio che vi guarda schifato e vi fa: “Piangi per il tuo amico, ma non per quel tale a cui stanno facendo il funerale di là” indicando una direzione a caso nello spazio e aggiungendo “Bella merda che sei.” Avrà voglia questo tizio a dire che i due sono morti lo stesso giorno allo stesso modo. Resta uno stronzo. Che poi entrambi la sera andiate a ubriacarvi e a divertirvi non cambia niente. Dei due lo stronzo lo riconosci: è quello “Parigi, Parigi, Parigi… e Beirut?” Scrollate le loro bacheche: solo ad ottobre, solo in Iraq ci sono stati più di 700 morti in attentati. Se non c’è traccia di notizia di questi morti potete stare certi di trovarvi di fronte a un’indignazione totalmente insincera, funzionale, interessata. Ma interessata a cosa? A porre l’attenzione su Beirut? Paradossalmente, la simultaneità degli attacchi ha dato un risalto mediatico che Beirut da sola probabilmente non avrebbe avuto, perduta nel marasma delle città mediorientali in cui si muore per attentati. Ogni settimana di ogni mese di ogni anno negli ultimi 15 anni, a voler stare bassi. Ma di questo non si tiene conto e si dà il via ad un gioco a ribasso talmente squallido che per il modo in cui è uscito sui social network ricorda i piagnistei benaltristi di gente che ragiona con l’intestino retto: “E allora i Marò?”, “E allora le Foibe?”, “E allora il fatto che io abbia pesanti tare cognitive non lo tieni in conto?”

Teniamone conto: perché Parigi non è Beirut? Un paio di dati così, al volo. Al 2009 gli italiani iscritti alla nostra ambasciata di Beirut erano millequattrocento, a Parigi centotremila. Circa settanta volte tanto. La possibilità di trovare un italiano nell’area metropolitana di Parigi è 1 su 120, in quella di Beirut è 1 su 1300. Questo senza considerare il flusso turistico: Parigi è la città più visitata al mondo, Beirut sono anni che è in guerra, questo non fa venire voglia di andarci. Poi, Parigi è la capitale di uno stato largamente confinante all’Italia, nostro alleato militare all’interno della coalizione Nato, questo che ci piaccia o no significa che siamo costretti ad aiutarli nel caso in cui venissero militarmente attaccati. Beirut è la capitale di un paese che sta oltre mare e con cui non abbiamo alcun rapporto diplomatico o strategico particolare. E non ho ancora parlato delle innumerevoli influenze culturali da tipo sempre, i flussi migratori, della diffusione della lingua francese in Italia, delle relazioni commerciali… noteranno le persone assennate come ci si può rendere ridicoli per l’idea stessa di dover giustificare un’attenzione italiana particolare verso Parigi rispetto a Beirut.

Ma per i decerebrati potrebbe non essere sufficiente, e allora facciamola sporca: contiamo i morti. Secondo un calcolo matematico che parte da un assunto ipoteticamente neutrale, assurdo in termini pratici, ma tant’è per alcuni conta anche robaccia come questa, che suona tipo “Uno vale uno”: a Parigi 132 morti e il bilancio sembra destinato a crescere, a Beirut 41, anche qui il bilancio può crescere, ma difficilmente raggiungerà i 132 morti. Parigi è una strage più grave in termini strettamente sanitari. Questa è una pur magra consolazione per Beirut. Nessuna consolazione per i morti, ovviamente, e il dolore provocato da una granata a Beirut è identico rispetto a quello provocato da una granata a Parigi. Però c’è stato comunque chi ha voluto ficcare Beirut nel dolore per gli attentati di Parigi. E lo ricordo, sto parlando di quelli che delle decine di attentati in Medioriente negli ultimi anni non se ne sono mai fregati niente. Ma perchè?

Volendo salire un secondo sopra quel brodo primordiale che sono le reazioni di pancia, cerchiamo di affrontare un po’ analiticamente il caso di chi, davanti ad una tragedia, pone in risposta un’altra tragedia, a prescindere, lo ripeto, da coloro i quali ne sono veramente implicati.

Il percorso mentale che sembra avvenire ricorda in una certa misura parte quello del processo del complottismo: davanti ad una realtà che non si vuole accettare se ne vuole imporre un’altra, pazienza se questa possiede persino maggiori contraddittorietà, che non si vedranno, l’importante è smontare la realtà della narrazione maggioritaria. Nel caso degli attentati di Parigi la narrazione maggioritaria dice: cambiamento, cambiamento che dice paura: l’Europa e le sue capitali sono vulnerabili ad attacchi terroristici. Questa è, o vuole essere, una realtà difficile da affrontare. Non ci siamo abituati, i libanesi non hanno la fortuna di questa ingenuità: gli attentati di Madrid e Londra sono molto, fin troppo, lontani dall’immaginario collettivo, specie da quanto l’immaginario collettivo si è andato sempre più formando sui social network, dove la volabilità delle notizie (caratteristica innata che internet ha solo accentuato) e la caducità degli eventi (idem come sopra) è portata all’estremo, a causa della rapidissima digestione culturale di massa che avviene ormai simultaneamente. Oggi a due ore da un evento, chiunque può recepire: una versione ufficiale, una versione ufficiosa, una versione complottista, un’ironia sull’accaduto, una satira sulle motivazioni intime dell’accaduto, un’analisi fredda e cinica, un’analisi ragionevole, una reazione razzista di un organo di stampa, il parere di un amico, il parere di cento conoscenti, i video amatoriali dell’accaduto, e via discorrendo. Questa velocità porta ad un rapido allontanamento emotivo e mentale da un evento, perché il tempo diventa più fitto e la nostra percezione incamera molti singoli eventi distinti in un lasso strettissimo. Ricordate la relatività? Uguale. Dimentichiamo in fretta l’origine, il fatto, e ci concentriamo subito sui particolari, sugli effetti di riflesso, sulle reazioni.

L’idea quindi è che ad una narrazione maggioritaria che porti un messaggio univoco quale “Siamo meno al sicuro di come pensavamo e lo saremo a tempo indeterminato” si debba trovare un contrasto. Come? Spostando il focus dell’attenzione, dal caso che convalida la narrazione maggioritaria, in questo caso gli attentati di Parigi, ad un caso del tutto simile ma, per fortuna (nostra e sfortuna di chi è libanese) lontano. In questo modo la nostra immagine della realtà ne può uscire meno scalfita, grottescamente consolata, aggrappata ad un qualcosa che rientra perfettamente in ciò a cui siamo abituati: in Medioriente si muore continuamente per attentati. Che ormai possa succedere anche in Europa è una cosa che va tenuta di poco conto. Nei lapsus c’è spesso la verità: in questi giorni molte persone stanno ritirando fuori la mattanza che Boko Haram fece in Nigeria nel 2015, causando migliaia di morti, e lo stanno condividendo come fosse di oggi, come a voler continuare questa assurda gara di morti e di dolore, chiaramente purché questo riguardi un paese esotico, già devastato di suo, che ci permetta di rimanere calmi e sereni nelle nostre convinzioni.

Ma se è da stupidi ignorare la percezione di insicurezza e di cambio di impostazione che la narrazione maggioritaria, sostenuta dagli eventi, sembra suggerire, non bisogna però dimenticare che l’obbiettivo di un attentato è proprio quello di provocare una paura. Paura che cavalcata e mantenuta salda nella narrazione maggioritaria porta poi i governi a sentirsi autorizzati a continuare proprio le guerre che stanno all’origine di un ciclo di morte e vendetta inesauribile.

Per questo bisogna prendere coraggio e percorrere una reazione matura, terza, affinché non si tramuti tutto in una fuga scoordinata dalla realtà che abbiamo vicina. Indubbiamente accettare che il nostro stile di vita e di voto, i nostri sistemi di potere provocano da anni una sofferenza lontana da noi che però in certi casi torna a raggiungerci è la cosa più difficile da accettare. È umano: se non percepiamo non ci rendiamo conto. Ma non ci renderemo mai conto se decidiamo noi cosa percepire. Questa è una delle problematiche antropologiche più ficcanti di questo periodo in cui tutte le versioni sono a nostra disposizione. Finché sosterremo persone, idee e azioni che a noi portano un vantaggio immediato ma che provocano enorme dolore in luoghi lontani dovremmo aspettarci che questo dolore ci possa voler essere restituito. Ingiustamente e barbaramente, ma restituito. Solo ampliando il nostro sguardo, la nostra immaginazione, nel tempo e nello spazio potremmo includere sinceramente ciò che accade a Parigi in ciò che accade a Beirut in ciò che accade ad Aleppo e in tutte le altre città coinvolte, e arrivare veramente a provare lo stesso dolore, la stessa sensazione di contrarietà, senza fuggirne una per rintanarsi ciecamente nell’altra, magari riducendoci ad un’azione coordinata e senza conseguenze, come cambiarci per qualche settimana l’immagine del profilo.

[F.S.]

8 risposte a "Parigi non è Beirut"

  1. «Beirut è la capitale di un paese che sta oltre mare e con cui non abbiamo alcun rapporto diplomatico o strategico particolare.»

    Non è esatto: https://it.wikipedia.org/wiki/UNIFIL
    Tolta ‘sta precisazione io sono molto più preoccupato dagli outbursts dello scontro di narrative nella “civilissima” col cazzo Francia, sfociato in cittadini francesi che tornano a casa dopo un corso di formazione coll’Isis. E questa preoccupazione ce l’ho anche avendo appreso per tempo e non ora, cosa fosse successo a Beirut.
    Continuo a considerare grave il ritenere qualcosa di quasi normale che ci si ammazzi in Medioriente, ma sempre meglio che finire nel gorgo degli allarmi e degli scontri fra fans di Hamas/Hezbollah e fans di Likud.

    1. L’Unifil è cosa nota, ma questo non ci rende alleati del Libano.

      Semmai, cosa notevole a cui mi fai pensare, ci sarebbe da chiedersi: ma l’Unifil, che in questo momento è a comando Italiano, che cosa ha fatto o non fatto in occasione degli attentati a Beirut? E com’è ora la situazione? Però questa è una questione già ulteriore rispetto alla dinamica di metabolizzazione dello shock, di cui prevalentemente mi occupo nel pezzo.

  2. Sono d’accordo, quasi.
    Sono d’accordo che Parigi non è Beirut per tutti i motivi che hai elencato: ma ho comunque il vomito, perchè se sei solidale con Parigi e poi scrivi “bombardiamoli tutti” oppure “bastardi mussulmani” lo scenario cambia: la solidarietà con Parigi non è più immedesimazione o paura, ma un’auto proclama della superiorità dei paesi dell’Europa, diventa dare maggior valore ad una vita piuttosto che ad un’altra.
    Perchè io provo dolore per il mio amico morto, ma mi dispiaccio comunque che a qualcun altro sia toccata la stessa sorte. O almeno non ne gioisco.

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