Non lo so se sia normale. Se ci penso un attimo, mi verrebbe da dire di sì. D’altronde siamo essere umani: siamo abituati a pensare qualcosa e a darci ragione da soli. Fosse anche solo per combattere un po’ la paura, ogni fottutissima singola paura che ci attanaglia o che si sforza di farlo dalla mattina alla sera.
Insomma. Non so se sia normale, e non so se succede anche a voi. Ma ragazzi, io ve lo dico: io mi sono rotto i coglioni. Lo giuro. Non ne posso più di tutta questa merda. Ma neanche, merda, perché credo sia innegabile che qua stiamo oltrepassando le Colonne d’Ercole della Decenza e ci stiamo addentrando, forse ci siamo già addentrati, in un oceano liquamoso di cui la merda è solo una componente. La migliore, forse.
Fermiamoci un attimo, guardiamoci intorno. Della politica, vogliamo ancora parlare di politica o di quella che ormai per abitudine chiamiamo così? No, dai. Basta. È una vita che si parla di questi stronzi e delle loro stronzate. Che va bene, per carità. Il cane da guardia e tutto il resto; gli Indifferenti di moraviana memoria e via dicendo. Vogliamo parlare del mondo? Vogliamo parlare della Siria? Dell’Ucraina? Di Trump? Di Berlusconi? Davvero abbiamo ancora voglia di farci i pompini a vicenda infamando Di Maio o i fascisti sparatori o i No Vax o acclamando – giustamente – il buon Burioni?
Passo. Stavolta passo. Stavolta mi va di fermarmi un attimo. È domenica, c’è il sole ed una bellissima aria fredda che scende giù dalle colline intorno alla città. C’è una luce bellissima, giuro, e ci sono persone a cui vogliamo bene che hanno scampato pericoli mortali. Ecco perché passo. Ecco perché non ho la minima voglia di sedermi su questa sedia impagliata, con le mani ghiacce ed il pc accesso, e permettere a tutta quella robaccia di insozzare, di insudiciare anche solo per un momento anche solo un centimetro di questa giornata.
Quello di cui ho voglia, oggi, quello di cui forse sento la necessità, in giornate come queste che sono una sorta di isolotto incontaminato che si staglia in mezzo a quel marrone oceano suddetto, quello che voglio insomma è: aggrapparmi al bello. Ma il bello vero. E raccontare una storia. Non una distrazione, attenti: non voglio spostare l’attenzione. Non ne ho bisogno. Perché in giorni come questi qua, che capitano ogni tanto, la sensazione che si ha è quella che la distrazione non siano le storie belle, ma la nauseante realtà. Sono sicuro che anche a voi capita di pensarla, questa cosa, ogni tanto.
C’è questo ragazzo. Niente di eccezionale. Nasce in una famiglia normale, a metà Ottocento. Cresce in modo normale: genitori severi il giusto, un buon rapporto coi fratelli, gli piace la natura. Gli piace camminare in campagna. Lo fa sentire vivo, parte di qualcosa che non è più grande di lui: che è lui stesso. Questo ragazzo è un ragazzo normale, un adolescente a cui ogni tanto girano i coglioni; un po’ taciturno, ma chi non lo è stato a quell’età. L’età in cui ci si sente incompresi da tutti, capite. Per questo, cazzo parli a fare. Poi, già a sedici anni questo ragazzo inizia a darsi da fare: entra in una compagnia che commercia opere artistiche, come assistente. Lo mandano in giro per l’Europa, ma vedere l’arte trattata come una “semplice” merce lo fa infuriare. Quindi litiga con i clienti, con i propri capi, con chiunque insomma: manda tutti in culo e perde il lavoro. Da quel momento, non gliene va bene una: prova a fare millemila cose e mestieri, ma niente. Non trova pace, non ha una lira, pensa perfino di diventare pastore protestante. Ma niente. Fino al fondo del fondo: decide di raggiungere la regione mineraria del Borinage per svolgere il compito di predicatore laico. Il più povero tra gli uomini più miseri. Fallisce ancora, per l’ennesima volta, e si ritrova solo, ma solo davvero. Solitudine e depressione rischiano di ucciderlo: neanche trenta anni, e tutto sembra finito, tutto sembra non essere mai neanche iniziato.
E poi, un giorno che forse era uno di quei giorni di cui si discorreva prima, uno di quelli con una luce particolare, uno di quei giorni in cui c’è una luce che per qualche momento rende le ombre meno minacciose, questo ragazzo prende un’altra decisione. La decisione definitiva. No, non decide di uccidersi; non nel senso comune del termine, almeno. Perché forse, da un certo punto di vista, quel ragazzo, quel giorno, decide di uccidersi, di uccidere un se stesso, il se stesso che era stato fino a quel momento, fino a quel giorno; un po’ come il Soggetto Narrante Senzanome di Fight Club che si spara in bocca per far fuori quel se stesso di nome Tyler Durden per rinascere uomo nuovo ed appropriarsi della sua tensione verso uno scopo superiore. Distruzione e rinascita, come nei testi sacri induisti, i Veda; un po’ come Gesù Cristo che muore e poi rinasce, risorge. Questo ragazzo decide di diventare un artista.
Innegabilmente, qualche talento il ragazzo ce l’aveva già. Innegabilmente, gli occhi del ragazzo avevano sempre guardato il mondo e le sue storie in modo particolare, in modo suo. Ma lui decide di diventare. Diventare. L’etimologia della parola “divenire” parla di movimento, di tensione verso: parla di “venire ad essere”, di “farsi diverso da quello che si era”. Non è meraviglioso? Lo è, ragazzi, lo è. Pochi cazzi. Perché il ragazzo la prende sul serio, questa faccenda del divenire; non decide di “essere”, un artista: non ancora. Sa di non esserlo. Non pretende di esserlo, non pretende di essere riconosciuto come tale. Sapete cosa fa, invece? Sapete come si muove, il ragazzo?
Si fa un culo come un paiolo, ecco quello che fa il ragazzo. Ma come un paiolo di quelli giganti. Disegna giorno e notte, giorno e notte, giorno e notte; copia più di una volta le centinaia di stampe e litografie che recupera in libri e manuali; studia, giorno e notte, febbrilmente, studia anatomia, studia prospettiva, studia la natura, studia i volti, studia gli alberi, studia, fatica, perché non riesce proprio a padroneggiare come vorrebbe la tecnica, soprattutto per ciò che riguarda la resa dello spazio su un foglio di carta. Si fa un culo come un paiolo, e ciò che dice al fratello, in una delle migliaia di lettere che si scambiavano, fu che finalmente gli pareva di essere felice.
Da lì in poi, il ragazzo non smette più di “divenire”. Avanza un passo dopo l’altro, faticosamente, ma ciò che il ragazzo non sa ancora, e che probabilmente non saprà mai, è che lui, dopo migliaia di pennellate, dopo migliaia di tele, dopo migliaia di lacrime, di sorrisi, migliaia di passi avanti, ciò che non saprà mai è che lui sarà divenuto Vincent Van Gogh.
In tempi come questi che ci troviamo, certe volte nostro malgrado, a vivere, tutto corre. Corre in modo vertiginoso. Le informazioni, quelle vere e quelle false, si susseguono e si inghiottono l’un l’altra; la velocità non è più quel mito estetico a cui puntavano futuristi e simili, ma una tagliola, una ghigliottina che incombe su di noi. Ogni ora sembra durare mille ore, perché infarcita di un nulla che rischia di tracimare e travolgerci. Sono tempi in cui ci raccontano che tutto, più o meno, ci è dovuto; che ci meritiamo il meglio. Che ci meritiamo un reddito solo perché siamo cittadini; che ci meritiamo la migliore automobile. Che ci meritiamo il successo. Che possiamo disquisire di temi di cui non sappiamo un cazzo perché “ogni opinione vale allo stesso modo”. E che se uno s’è fatto un culo scandaloso per tutta la vita, in fin dei conti è solo un arrogante, un saccente. Quasi un coglione, in definitiva.
Col cazzo. Riuscite ad immaginare Van Gogh nella sua piccola stanza, circondato di libri e colori, che si rompe la gobba perché ha capito profondamente il valore vero della parola “divenire”? Riuscite a comprendere il dolore, la gioia, la vita che è racchiusa in questa “semplice” parola? Riuscite a staccare un attimo dal rotolìo dei minuti sui minuti, ed a non pensare a ciò che succede nel mondo, ma a divenire qualcuno che si interroga sul come guardare ai nostri tempi? A me ogni tanto capita. Non so se sia normale, o se succeda anche a voi. Io però ogni tanto ci provo. Scrivendo questo pezzo in giorni come questi, ad esempio; e se voi vi siete presi qualche minuto per leggere questa storia, probabilmente, anche voi siete proprio come me.
[Gianni Somigli]
“Trasformò il dolore, il peso della sua vita tormentata in una estatica bellezza”
Scusate, ma non potevo non commentare non citando quello che ritengo uno degli omaggi più belli mai fatti a Van Gogh.
E col tuo pezzo hai fatto altrettanto, grazie.