Quando ero un giovanotto, siccome che fin da piccino picciò ero un appassionato di libri e di lettura, e siccome che poi mi piaceva scrivere e siccome che mi avevano detto che ero intelligente e brillante (non ricordo chi mi aveva detto queste robe, forse la mi’ mamma) ebbi la fortuna di lavorare per un po’ di anni in vari giornali. Anche qualcosa di importante, qualche volta. Poi, dopo, per una serie di eventi che allora reputavo sfortunati ho iniziato a fare un altro mestiere, quello che faccio adesso, ormai da qualche anno: il tatuatore. D’altronde ho sempre cercato di “esprimere me stesso”, in qualche modo, che fosse attraverso le parole o attraverso i disegni, sulla carta e sulla pelle.
Ho iniziato la mia “carriera” in dei piccoli giornali fiorentini, mensili a distribuzione gratuita che però avevano il gran pregio di avere una tiratura discreta e di essere letti da un buon numero di fiorentini. Ricordo il mio primo articolo, che emozione ragazzi. Avevo descritto una seduta di Consiglio di Quartiere, il numero quattro nello specifico, quello che comprende l’Oltrarno per intendersi (chiediamo perdono ai non fiorentini per questi dettagli). L’emozione e il timore del foglio bianco. E poi il rumore di quella cartaccia riciclata e l’inchiostro ancora fresco, ma quel nome in calce al pezzo, la firma. Pura poesia.
Nel corso degli anni, come dicevo, ho scritto per tante testate, cartacee ed online. Ho scritto di tutto: cronaca, cultura, sport. Buche per la strada, rifiuti più o meno tossici, politica. Ed in ogni modo e forma, rimanendo sulle famose 5W o corsivi, inchieste, reportage. Di tutto, in ogni modo. Così, ovviamente, mi è capitato di conoscere tante, tante persone. In molti casi, i ruoli erano ben chiari, netti: io ero il giornalista e loro erano quelli che avevano qualcosa da raccontare. A me, certo, ma attraverso di me a quante più persone possibile. A tutto il mondo.
Dal canto mio, un po’ per natura, un po’ per deformazione comunicazionale, ho sempre cercato di dare la massima importanza, di mettere il massimo impegno in ciò che facevo. A partire dal principio, cioè da ciò che reputo il passo più importante in materia di relazioni umane, qualunque esse siano: l’ascolto.
Mi piace ascoltare. Mi piace molto. Mi piace tentare di mettermi nei panni di chi mi sta ascoltando, empatizzare con ciò che mi sta dicendo. Un po’ come se me ne volessi cibare, per farlo mio, per entrarne a far parte. Che solo così, io penso, lo pensavo allora e continuo a pensarlo adesso, si può metabolizzare, capire, essere, e creare, raccontare. Essere filtro ma essere anche parte di una storia. Io l’ho sempre vissuta così, questa faccenda.
Tante storie e tante persone. Ascoltate tutte con lo stesso impegno. Ascoltate, elaborate, e poi raccontate. Alcune riascoltate a loro volta, e così via. E però è ovvio che ognuna di loro, ciascuna di queste storie, era diversa l’una dall’altra. E non è che poi, almeno a me è successo così, forse proprio per questo approccio più umano che professionale, uno si renda conto subito quando si imbatte in una storia diversa da tutte le altre. Una di quelle storie che sono una sorta di mondo a sé, di universo, che comprende al suo interno centinaia di storie diverse che turbinano come pianeti alla deriva.
C’era, e c’è tuttora a Firenze, un’associazione. A dire il vero ce n’erano e probabilmente ce ne sono ancora di più, ora. Questa, però, era diversa. Associazione tra i Familiari delle Vittime della Strage di via dei Georgofili, la denominazione. Insieme al direttore del giornale per cui lavoravo all’epoca, decisi, oltre a pubblicare i comunicati che arrivavano copiosamente in redazione, di incontrare la presidente dell’Associazione, Giovanna Maggiani Chelli, per conoscerla personalmente, intervistarla, e proporle una rubrica fissa sulle pagine del nostro mensile.
Ascoltare non è sempre facile. Tutti lo sappiamo, no? Immagino di sì. Giovanna, con cui quasi da subito è nato un forte rapporto di stima ed amicizia, mi investì con il suo racconto, con la sua storia. Una valanga di parole, di nomi, di dati, di date. Ricordo che a stento riuscivo a starle dietro, col mio taccuino (ho sempre odiato i registratori, odiando sbobinare ed amando invece la scrittura manuale). A stento riuscii a far stare in pagina tutta quella mole di informazioni, di pareri. Quell’invocazione di aiuto, quella pretesa di giustizia. Ma una cosa, una, mi era rimasta incastrata nella pancia: la mia pochezza davanti a quella storia, quella storia che ancora non avevo capito avesse una S maiuscola davanti. Mi vergognavo, dico sul serio. Perché, pur essendo fiero di sapere tante cose sulla storia di Firenze, quella parte lì, la parte in cui una bomba fa crollare un’antica torre a pochi metri dal Museo degli Uffizi; la parte in cui una bambina di cinquanta giorni ed una di nove anni muore insieme al babbo e alla mamma; la parte in cui un ragazzo di poco più di venti anni viene bruciato vivo; la parte in cui la vita di centinaia di persone viene stravolta, capovolta, straziata, cambiata per sempre; la parte in cui decine e decine di opere d’arte vengono colpite e distrutte. Ecco, questa parte, che non fa parte del Rinascimento, non fa parte degli aneddoti su Palazzo Vecchio. Questa parte, così vicina a noi temporalmente, praticamente non la conoscevo.
Ventisette maggio millenovecentonovantatre.
Erano morti da poco Falcone e Borsellino. Esplodevano bombe “in continente”, come si usava dire. Roma, Milano. Firenze. Dopo Tangentopoli, si disse, la mafia passava all’attacco. E per la prima volta nella sua storia, si disse, faceva traboccare la sua violenza stragista dai confini insulari siciliani. Avrete sentito parlare, se ne parla anche in questi giorni, della cosiddetta “trattativa Stato-Mafia”. Non è quello di cui voglio parlare, qui, oggi, a pochi giorni dal venticinquesimo anniversario di quella maledetta notte. Ci sono processi e sentenze che alcuni capitoli di questa storia l’hanno fissata come verità giudiziaria, e, su questo, ognuno può farsi un’idea (nel sito dell’Associazione c’è un intero archivio dedicato ai documenti).
La mia pochezza, si diceva. Uno come me, un arrogante sapientino che vuole saperne sempre più una del suo interlocutore. Ma scherziamo. Mi metto a studiare come un matto. Leggo. Leggo. Studio. Parlo. Ascolto. Giovanna, moderna “Virgilia” personale, mi guida in un intrico in cui faccio un’immensa fatica a districarmi. Decido di addentrarmi nella Selva Oscura di questa storia con i piedi e con le mani. Ascolto. Parlo con poliziotti, giornalisti, magistrati, politici. Parlo con magistrati antimafia, con quelli della DIA, parlo con le vittime. Vado negli archivi dei giornali e dei tribunali. Scavo. Parlo. Ascolto. E più cose scopro, più mi accorgo che, anziché risposte, sono le domande a spuntare fuori come funghi. Perché?, mi chiedo, volendo risalire la corrente della storia come una sorta di salmone indagatore. Perché? Perché queste bombe? Perché questi morti? Perché? Perché fu mafia ma non fu un’azione mafiosa?
“La mafia non fa mai nulla se non ha un vantaggio diretto”, mi ripeteva Giovanna, sempre, come un mantra. Come un’indicazione, una stella polare: quella del “vantaggio diretto”. Ammazzo un giudice, Falcone, per il suo operato. Lo uccido e lui non opera più. Stessa cosa per Borsellino, e Caponnetto, e decine di altri servitori dello Stato. Uccido un giornalista per ciò che scrive. Decine, caduti sotto il piombo mafioso. E allora, perché quelle bombe? Chi ne ha tratto vantaggio?
E poi: se la mafia colpiva per la prima volta fuori dai propri confini storici, allora voleva dire che, in realtà, la mafia in Toscana e a Firenze (così come da altre parti in Italia e in Europa) non esiste? E giù, altre domande, altri studi. Se ve lo state chiedendo: sì, la risposta è sì. Esisteva ed esiste, anche se in altre forme.
Le pagine si accumulavano, le fotocopie, i file sul pc. Le interviste. Le parole. Alcuni, poco ascoltati a dire il vero, avevano già tentato di raccontare questa storia. Eppure, c’era qualcosa che mi sfuggiva. Qualcosa che avevo il sentore essere gigantesca, come cosa. Una sorta di rumore di sottofondo inascoltato ma sempre presente. Per un po’ ho lottato, cercando di abbassare il volume di tutto il resto. E poi ho capito.
Le persone.
Quello che nessuno aveva mai capito, forse. Quello che forse qualcuno aveva capito, ma che aveva sempre deciso di tralasciare. Perché è così che avviene, quando succedono accadimenti così grandi, così tragici. Questo è ciò che capita quando gli eventi determinano un cambio di rotta della storia di tutti quanti, della Storia di un paese, di una Nazione. Non arrivo a dire che l’elemento umano viene meno, questo no, ma diventa, appunto, un rumore di sottofondo.
Ciò che fece scattare la molla, almeno per me, fu la rabbia. La rabbia nel leggere, in moltissimi casi, che quando si parlava di vittime si usavano le cifre. Cinque morti e cinquantadue feriti. Quattro morti e trentasei feriti. Tre morti. Otto morti. Due morti. Ognuno di quei morti era una persona. Una vita. Forse è la stessa roba che ha provato chi ha letto “Per chi suona la campana” (non dico “chi l’ha scritto” per evitare i giusti insulti che potrebbero piovere accostando me a quel gigante che era il veccho Ernesto).
E fu in quel momento che decisi di scrivere. Di scrivere un libro che raccogliesse sì la storia, sì i dati, ma che fosse soprattutto una cassa di risonanza per il racconto delle vite che sono rimaste e per quelle che se ne sono andate. Un libro che riuscisse a coinvolgere chi lo leggesse, per far capire loro che quelle bombe lì hanno ammazzato tutti noi, almeno un po’. Non ho mai creduto che questa fosse un’operazione semplice, ma ancor meno ho creduto di fare qualcosa di lagnoso, di patetico. Ho sempre cercato, nel mio lavoro, di gettare una luce di umanità, di empatia in ciò che faccio.
Ventisette maggio millenovecentonovantatre. Sono passati venticinque anni da quella notte maledetta. Ne sono successe tante, dopo quella notte. Dopo poco, la mafia smise di uccidere innocenti a destra e a manca. Lo “stragismo” mafioso terminò. Nuove forze politiche sostituirono quelle spazzate via da Mani Pulite. Le Mani che fecero nascere la cosiddetta “Seconda Repubblica”, secondo molti, non erano pulite manco per nulla. Ma grondanti sangue, il sangue, insieme a quello delle vittime delle altre stragi italiane, delle vittime della Strage di via dei Georgofili di Firenze.
Sono passati venticinque anni. Un nuovo governo sta nascendo. Le facce sono diverse, i nemici diventano amici. Ma il paese in cui chi vi scrive è cresciuto, che è poi anche il vostro, affonda le sue radici in quel tritolo, in quei morti, in quella Storia che ancora nessuno ci ha davvero raccontato se non le persone che in quella storia sono state tirate dentro contro la loro volontà ed in modo così violento, così atroce che il più delle volte tutti noialtri pensiamo: menomale che non è successo a noi. Menomale che non è successo a me. Ed è qui che sbagliamo, è proprio qui che sta l’errore più tragico. È successo a noi.
È successo a tutti noi.
[Gianni Somigli]