Ponti.

 

Qualche giorno fa, poco più di una settimana, mi trovavo a Mostar. Ne avrete sentito parlare, forse; e se non ne avete sentito parlare, forse dovreste ascoltare meglio il racconto della storia. Mostar è una cittadina a non troppi chilometri da Sarajevo, Bosnia Herzegovina. Avete presente meglio, adesso, di cosa sto parlando. Forse. Quel posto dov’è morta un sacco di gente, sapete. Pulizia etnica, campi di concentramento, stupri e torture, bombe sul mercato, caschi blu impotenti, secondo alcuni; complici, secondo altri, almeno in alcuni casi (hai mai sentito parlare di Srebrenica?). Il tutto mica un miliardo di anni fa. Ma quando mai.

Mi trovavo a Mostar, penultima tappa di un giro in macchina lungo più di tremila chilometri. Luoghi strani, in Bosnia. Ci sono cimiteri ovunque. I morti, sottoterra, sono tutti uguali in Jugoslavia. Ed anche in superficie ci sono fantasmi dappertutto.

Mostar. Mostar, come innumerevoli altri villaggi bosniaci (e non solo), in quegli anni è stata praticamente rasa al suolo, nelle mura e nelle vite. Eppure, un fatto, un episodio specifico ha colpito l’immaginario collettivo più di altri. Nelle menti e nei cuori di chi a Mostar ci ha vissuto prima e dopo, di chi ci vive adesso. Ma anche di chi, in qualche modo, pensa che non si debba chiedere per chi suona la campana.

Era il 9 novembre del 1993 quando i cannoni croato-bosniaci abbatterono il grandioso Stari Most, il ponte che da più di cinquecento anni univa ciò che non poteva essere unito se non con un miracolo degli uomini, più che di Dio.

E adesso, a distanza di non troppi anni, adesso che il ponte è stato ricostruito nell’aria di Mostar non si sente, non si avverte il profumo del miracolo, della convivenza, dell’unione. Ero a Mostar qualche giorno fa. I giovani sono tornati a tuffarsi dal nuovo Ponte Vecchio di Mostar giù, nella Narenta, per qualche spicciolo; il quartiere islamico pullula di turisti e di anziani con la barba lunga e gli occhi spenti, con i loro martelletti a lavorare e cesellare l’ottone da secoli e secoli; il quartiere austroungarico, di là dal ponte, è austero e decadente. Non c’è profumo nell’aria. Solo dolore, fantasmi: il prolungato rumore sordo di un ponte che cade trascinando con sé… tutto. Trascinando con sé: tutto.

Forse è solo un caso se la Prima Guerra Mondiale scoppiò dopo l’omicidio di Francesco Ferdinando d’Asburgo sul Ponte Latino di Sarajevo.

Tra tutte le nefandezze infami che i nazisti hanno compiuto durante la loro occupazione dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, da anni si è diffusa una leggenda: in fuga da Firenze, Hitler dette ordine di minare tutti i ponti sull’Arno e di farli esplodere. Tutti tranne uno: il Ponte Vecchio. Perfino un barbaro come il duce tedesco avrebbe voluto risparmiare uno dei più importanti capolavori mondiali. E invece no. Non è mica vero, la storia è stata diversa.

Ponti. Ponti. Si parla di ponti da sempre, nella mia terra. Perfino quando qualcuno ha deciso che quei tre o quattro sassi in mezzo all’Arno, forse un vecchio ponte romano, dovevano essere attribuiti al condottiero Annibale, di passaggio verso Roma. Questo ponte, insieme a quello fiorentino e a Ponte Buriano di Arezzo, fu risparmiato dai bombardamenti.

I ponti vanno giù, quando la guerra imperversa. Ma, volendo, possiamo capovolgere la medaglia, e pensare a chi i ponti li ha costruiti. Ponti veri e ponti morali: non è un caso se autorità morali massime vedono affondare le proprie autorevoli radici nello stesso termine. Alcune fra esse, tutt’oggi, richiamano il loro ruolo di pace come pontefice, costruttore di ponti. Così come ci sono da sempre ponti nelle promesse elettorali, e, pertanto, irrealizzabili per natura.

I ponti. Ci sono filosofi che si sono confrontati con la metafora del ponte, e che continuano a farlo. Ci sono “studiosi della mente dell’uomo” per cui la figura del ponte è centrale.

Il ponte è sempre, da sempre, un’opera dal carattere enormemente importante. Il ponte unisce. Il ponte salva. Senza voler essere macabri, il ponte riveste un’importanza definitiva anche per chi ne ha abbastanza della vita: mi butto dal ponte, si dice. In qualche caso, si fa. Provate a inserire “ponte dei suicidi” su Google, e avrete un’idea di quanti sono i trampolini verso la morte in giro per il mondo.

Il ponte è un archetipo, dunque. Una metafora, un simbolo. Probabilmente, una delle invenzioni che rendono gli esseri umani diversi dagli altri animali: non solo la capacità tecnica ed ingegneristica di progettare e realizzare opere architettoniche. No, non è questo. È la capacità di sognare, di vedere ciò che non esiste, di immaginare un mondo migliore.

Ecco perché veder crollare un ponte in mezzo a una città devasta il nostro essere. Ecco perché, da metafora di speranza e di unione, di futuro, esso crollando diviene metafora di morte, di distruzione, di disgregazione.

Ecco perché ci spaventa, ecco perché siamo terrorizzati: ecco perché ci affanniamo a cercare qualcuno a cui dare la colpa. Qualcuno di fisico. Qualcuno con un nome, un cognome, una firma, una faccia. Qualcuno che ha detto qualcosa di sbagliato, qualcuno che non ha fatto ciò che doveva fare, qualcuno verso cui puntare il dito, fingendo di non notare, ahinoi, che il nostro dito puntato tremola tutto per la paura.

Salvini, Delrio, Toninelli. Di Maio. Renzi. Berlusconi. Autostrade. Cazzo. Ci sarà pure qualcuno verso cui puntare questo cazzo di dito. Perché il rischio è che a furia di girarlo qua e là come una vecchia pistola sfiatata, quel cazzo di dito resti lì, disarmato e penzolante verso il cielo, come quando a scuola chiedevamo di andare in bagno o volevamo fare una domanda. Solo che la domanda, stavolta, è: chi si piglia la colpa?, ed il dito alzato, stavolta, è di tutti noi.

[Gianni Somigli]

 

3 risposte a "Ponti."

    1. È molto gentile commentare un articolo spammandone uno “più bello” 😛

      L’articolo di Fanelli ha un taglio completamente diverso, ma si lascia leggere: se t’è piaciuto sono contento per te.

  1. Ma no, giuro che mi è piaciuto.
    Non sei tu, sono io.
    No, giuro.
    E’ che sono stanco.
    Ho mal di testa, giuro.
    E’ che non sono pronto per una relazio-

    Ah, no, mi sono fatto prendere la mano, come disse Onan.

    Fatto sta che mi è piaciuto sul serio, ma un discorso in generale sul cemento è il caso di farlo, e il Fornelli l’ha fatto, e a beneficio dei lettori e a maggior gloria del blog papero ho pensato di rilinkarlo.

    Di tutti i quotidiani italiani mi SEMBRA che l’unico a parlare della questione del cemento sia stato Avvenire…

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