A dire la verità, non sono uno di quelli che crede più di tanto al “potere terapeutico” delle vacanze. Nel senso che il più delle volte si tratta solo di sospendere momentaneamente qualcosa di quotidiano: lavoro, stress, cazzi e mazzi. Sospendere o spostare. Dipende.
In questi giorni, forse per fornire un alibi a me stesso, ho invece deciso che il ritorno dalla settimana fuori casa sarebbe stato il momento ottimale per un esperimento. Un esperimento sociale, psicologico, psicosociale, antropologico, pedagogico.
Sono mesi, ormai, che se ne parla. Forse anni, anche se in modo diverso, ma soprattutto adesso la “deriva social-e” è divenuta un fenomeno fuori controllo. Lo sappiamo tutti. Notizie false, palesemente false; idee del cazzo e ideatori di merda; commenti sempre uguali, tutti uguali, come piccoli mattoncini a costruire muri per tenere fuori dalla propria vita la realtà e sentirsi al sicuro dentro al recinto, solo insieme a chi la pensa come noi.
Anche grazie al gruppo di Non si Sevizia un Paperino, l’Aia Furibonda, ultimamente il senso di colpa di chi ha votato a sinistra si sta affievolendo e comincia a riaffiorare un orgoglio inaspettato: la fierezza dell’essere normali. A questo ci hanno ridotti. Perché l’asticella, anziché verso l’alto, ogni giorno viene sotterrata qualche piede più giù. E sentirsi dei fenomeni dell’intelletto, davanti a questa masnada di inpensanti, non è poi così complicato.
Tuttavia, il fattore rischio di chi si ritiene un intellettuale, o quantomeno un tizio normale, è sempre il solito: quello di “farsi i pompini a vicenda” in una stanza chiusa e contrapposta a quella suddetta, magari arredata meglio, con più libri sicuramente e forse qualche quadretto carino alle pareti. E comunque, dopotutto, i pompini a vicenda restano comunque migliori della masturbazione solitaria. Anche se forse non tutti saranno d’accordo con questa mia esternazione forse troppo internazionalista.
Un esperimento sociale, si diceva. Io non so bene come si facciano gli esperimenti, sono sempre stato una capra in scienze proprio perché ho difficoltà di metodo. Ma di ritorno dalle ferie, con le batterie della diplomazia cariche al massimo, ho deciso di buttarmi e tentare di trovare una soluzione, o una delle soluzioni, all’annosa questione: come ci si confronta con i commentatori seriali in stile “giùlemanidalcapitano”, “eallorailpd?”, “piglialiacasatua?”.
Ammetto di aver passato vari periodi. E forse anche quello attuale è solo un altro periodo come gli altri, altro che esperimento. Boh, si vedrà.
Ho passato il periodo della negazione: chiunque condividesse certe robe o commentasse in un certo modo sulla mia bacheca, in giro o anche nella mia “vitavera”, fuori. Bloccato, cancellato. Non esiste, non c’è più. Ma è evidente che così la nostra stanzetta diventa sempre più piccola: più finta.
Allora son passato alla rabbia rancorosa contrapposta: rispondere agli insulti con insulti ancora peggiori, derisioni lessicogrammaticali, e così via. Sì, lo ammetto: lì per lì uno si sente anche meglio con se stesso, ma esattamente come nel momento subito dopo la masturbazione ti senti assalire da quella sorta di malinconia, di tristezza, di vuoto interiore. Non sei in pace con il mondo, ed anzi ti senti un po’ sporco: solo che dopo la masturbazione basta un fazzoletto. Dopo aver perculato questa gente invece no, perché ti senti abbassato a livelli che sai non appartenerti. Perché sai che non serve a un cazzo, e anzi, come dicono tutti, troppi, “così porti solo voti a loro”. Una stronzata enorme, questa. Ma se ne parlerà un’altra volta.
Insomma, dopo questi tentativi miseramente falliti, ed in seguito ad un effimero sbocco nel situazionismo che mi ha portato a controcommentare con discorsi effettivamente senza senso, ho deciso di cambiare registro: empatia, educazione, ragionamenti logici con parole semplici. Denudare il Re di fronte ai loro occhi. Scendere sul loro terreno di battaglia ma usare armi differenti: non discorsoni noiosissimi o dati o link, che quelli manco s’inculano, e che fanno tanto “professorino sapientino radical-chic”. Parlare la loro stessa lingua, insomma, ma (e qui viene il bello) senza rancore, senza rabbia, senza pietismo, senza aggressività.
“E tu pensi che in 3 mesi possano fare il reddito di cittadinanza? Tu sei da 104”, mi ha scritto uno l’altro giorno. E un altro, a ruota: “Stavi meglio col pd che ha smantellato lavoro sanità e ci ha ridotti sul lastrico”. Questi i più edulcorati.
Ai bei vecchi tempi, la mia risposta sarebbe stata più o meno “Ti rompo tutti i denti”. E non è che abbia proprio smesso di pensarla, questa cosa. Lo ammetto. Resiste sempre una parte di me votata alla violenza animale. E invece c’è questo cambiamento in atto, in me, un po’ come quello di Jules in Pulp Fiction.
A questi due, per esempio, ho risposto con estrema educazione, con estrema calma, e, e questa è la mia scoperta principale al momento, dando del “lei”. Ragazzi, forse non ci crederete, forse è solo un caso, non lo so: dare del “lei”, su fb, è una sorta di arma supersegreta, una cazzo di Fatality allucinante. Questi partano subito con “te qui, te là, pidiota, buonista”: tu rispondi con distacco e dando del lei ed è come se questi cani rabbiosi del cazzo si mettessero a cuccia al volo. Sì, certo, una qualche ringhiata la buttano sul piatto lo stesso. Qualcuno magari pensa perfino di aver “vinto il duello”. Ma no, non è così.
Dare del “lei” è riportare un sano distacco fra interlocutori, è un dare rispetto che, in caso di sbraitamento reiterato, metterebbe il tizio in una luce becera. Sì, lo so che ci vive in quella luce lì, ma lui non se ne rende mica conto.
Come sperimentato con successo in queste prime settimane di Aia Furibonda, insomma, ma con una qualche differenza significativa, perché dentro al gruppo siamo più o meno tutti sulle stesse posizioni, anche se ognuno con un punto di vista o di partenza diverso, con modi di fare diversi e così via.
Questo genere di persone, che hanno votato esclusivamente Cinque Stelle e Lega, si sentono non rappresentati, ma legittimati a fare del rancore, della cattiveria, la propria cifra. Non hanno bisogno di argomenti, sono superflui. Come dimostra il mondo che ci circonda: che si parli di migranti, lavoro, pizza, birra, figa, negri, ebrei, comunisti, economia, estero, guerra, calcio… è tutto sempre uguale.
Non ci rimane che tentare questa via, dunque: sgonfiare la cattiveria, anziché aizzarla. Togliere il rancore dalle nostre parole e dai nostri pensieri significa togliere la terra da sotto i piedi di queste persone. Il loro odio è forte, è inculcato così a fondo dentro di loro che dubito basti questo per cambiarli. Ma credo sia un primo passo, un primo passo necessario che la classe dirigente di sinistra si ostina a non compiere e che altri intellettuali importanti di riferimento per l’area che non si riconosce nei “gialloverdi” stentano a comprendere: vanno allo scontro, all’offesa, al nomignolo. Tentano di superare questi deficienti essendo più deficienti di loro, ma dalla parte giusta. E no, non funziona. Lo dimostrano i numeri (quelli veri, però).
Una domanda che mi hanno spesso fatto, anche ultimamente, e che ancor più spesso ho rivolto io stesso a me stesso, è: “Ma cosa cazzo te ne frega?”. E in effetti non è mica peregrinaccia, come domanda. Mi sveglio e penso: ma che cazzo me ne frega? Perché mi devo mettere a parlare con sconosciuti di questioni più grandi di me? Perché mi devo arrabbiare, fare il sangue amaro? Perché, col lavoro che faccio, mi devo esporre così e in modo così diretto, personale?
La risposta l’ho trovata un paio di giorni fa, mentre tatuavo e parlavo con un mio amico esattamente di queste cose.
La risposta che ho dato a lui, senza rendermi conto che invece è con me stesso che stavo parlando, è stata: “Perché sono un bischero, e, in quanto bischero, sono un intellettuale. Ma soprattutto perché sono un uomo, un essere umano, e tutto mi riguarda personalmente: io non chiedo per chi suona la campana”. Lui mi ha guardato un po’ storto, penso non abbia colto i riferimenti e quando ho usato la parola “intellettuale” mi è parso anche di vedere qualche brivido di raccapriccio sulla sua pelle. Ma, come si usa dire, mi sono capito da solo. Apriamo le finestre, ragazzi. Diamoci da fare.
[Gianni Somigli]
Interessante, però mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca la parte relativa alla risposta ai due tizi. Oltre ad avergli dato del “lei”, si può sapere cosa gli hai risposto? Perché quella è la parte interessante, secondo me.
Questo tema mi interessa.
E, stranamente, approvo tutto l’articolo: voi avete molte più opportunità di sperimentazione, e forse grazie al vostro laboratorio possiamo trovare (o almeno cercare) una soluzione per questo problema.
Sono sempre stato contrario a insultare e negare le necessità espresse dai branchi di cani (sigh), persino da quelli gialloverdi. Sono esseri umani, sono come me, hanno idee diverse, hanno dei bisogni che vanno ascoltati, per quanto non condivisi, invece di insultare a priori la persona che li esprime.
Un buon discorso, pensavo e penso ancora, una buona retorica, può con-vincere. Vincere insieme a una idea migliore.
Ci credo ancora, ma su twitter ho scambiato commenti con uno che sosteneva la scientificità del razzismo. “I negri sono inferiori perché hanno mediamente un QI più basso” diceva, come fosse la prova definitiva.
E giù a fare presente che il QI non misura niente, che l’intelligenza non è definibile in un parametro scientificamente misurabile, che la metodologia della ricerca sociale richiederebbe almeno che gli ambienti di crescita fossero uguali, che forse non è una buona idea parlare di argomenti di cui evidentemente non si sa nulla.
Niente. Continuava. Alla fine l’ho bloccato e segnalato per salvaguardare il mio equilibrio mentale.
La mia bolla è più piccola e la mia sconfitta evidente, ma almeno mi sono fermato prima di passare agli insulti (già non ho lesinato sugli “ignorante”).
Forse avrei dovuto fare appello alle emozioni (“immagini se suo fratello fosse di colore”)?
Mi sfugge quale vorrebbe essere l’obbiettivo ultimo dell’operazione.
Il dialogo?
E l’obbiettivo del dialogo sarebbe?
Ricondurre gli imbecilli alla ragione?
Non è divertente quanto suonare la cetra guardando il paese bruciare.