Secondo appuntamento con Guida a Sinistra, la nostra rubrica di consigli e suggerimenti (non richiesti) per esseri umani standard che sentono il bisogno, nel loro piccolo, di fare qualcosa per ridurre il quantitativo d’odio nel mondo, per “restare umani” e per disinnescare almeno in parte le bombe di populismo, qualunquismo e intolleranza sganciate quotidianamente dall’estrema des da persone problematiche.
Oggi parliamo, in realtà, di un argomento parecchio “generico”: perdere la calma in una discussione. È successo a tutti: qualcuno dice qualcosa di insensato, o che colpisce un nostro “punto debole”, e a quel punto “ci parte l’embolo”. Una caligine rossa scende sui nostri occhi e ci produciamo in un rant epico, attaccando l’interlocutore (e non solo le sue idee), magari fissandoci su un dettaglio o una singola frase, senza più vedere (se c’è) la logica dietro il suo ragionamento e soprattutto senza più la minima disponibilità non solo a dargli ragione, ma anche solo a provare a capire il suo punto di vista. A me è successo spesso, a volte me ne dolgo, altre volte meno, sta di fatto che non è un buon segnale quando succede.
Proprio perché è una sensazione che ho sperimentato, anche di recente (sempre più raramente perdendo la calma, più spesso per fortuna evitando il disastro) mi permetto di provare a darvi qualche consiglio con annesso qualche esempio pratico. Apprezzate almeno la buona volontà, laddove mancasse capacità di sintesi.
1. Renditi conto che sei in trigger. Può sembrare una cosa ovvia, ma quando esplode un’emozione non è automatico realizzare che si è preda della stessa. Chi gioca a qualche videogame online lo sa bene: se perdi la pazienza perdi ancora di più, ma prima di “realizzare” che ormai concentrazione e coordinazione sono azzoppati alla grande dalla rabbia può volerci più di una sonora batosta. In una discussione è la stessa cosa: prima di renderci conto di essere diventati poco chiari, emotivi, o addirittura aggressivi o illogici può volerci del tempo. Alleniamoci a capire, anche solo dalla velocità a cui parlaiamo o scriviamo e dal numero di errori commessi (non per forza grammaticali, anche di costrutto, nella costruzione del ragionamento etc), quando in noi “scatta” l’esplosione emotiva, come monta e quali argomenti sono il nostro trigger per eccellenza. Le cause principali di trigger sono tre: idee e atteggiamenti opposti ai propri (il maschilismo per una persona femminista, l’intolleranza per una persona tollerante, etc), un trauma (argomenti come bullismo, molestie sessuale, stalking e simili sono molto più stressanti emotivamente per chi le ha subite) o la preservazione del proprio sé (inteso come insieme di esperienze, abitudini, cultura, ma anche vizi o difetti). Sapere quali sono i nostri trigger ci aiuta a prevenire disastri, anche solo sfilandoci dalla discussione se si sente di non essere in grado di sostenerla. Ricordiamoci inoltre che ci sono anche dei segnali fisici: senso di disagio, aumento del battito, della temperatura e della sudorazione, lievi tremori, movimenti più bruschi del normale. Se siamo arrivati a questo punto possiamo illuderci quanto vogliamo di essere ancora “in controllo”: in realtà la calma l’abbiamo già salutata da un po’.
2. Non prendere niente sul personale. Le regole della comunicazone non ostile invitano a discutere gli argomenti senza mai attaccare le persone. Ovviamente noi, che siamo persone per bene, cerchiamo di farlo ogni volta che si può, rimanendo lucidi ed evitando ad hominem e altre fallacie. Di solito chi segue questa regola non vuole davvero ferire: ricordiamoci che il trigger è soggettivo (siamo noi che ci incazziamo a mostro su quell’argomento o dettaglio, mentre magari altre persone rimangono calmissime) e se l’altra persona non ci conosce e sta discutendo pacatamente dell’argomento, probabilmente non ha davvero nessuna intenzione di farci incazzare. Quindi, se il nostro interlocutore segue questa regola, è assolutamente necessario non solo ricambiargli il favore, ma sapere che il suo atteggiamento, probabilmente, non contiene realmente giudizi su di noi, siamo noi a vederli perché magari ci spaventano, siamo reduci da qualche trauma legato all’argomento o non siamo sicuri della nostra idea. “Penso che tu abbia detto una cosa un po’ razzista” non equivale a dare del razzista: è stata attaccata una singola frase, ed attaccare un argomento è diverso da attaccare la persona. Se invece prendiamo sul personale anche ogni attacco ai nostri argomenti, andremo in trigger in automatico ogni volta che qualcuno non ci dà ragione (o non ce ne dà a sufficienza), il che può essere disastroso, perché più una persona è “triggerata” più è convinta di avere ragione, più tende a prendere le cose sul personale e più perde di vista il filo logico del discorso attaccandosi a singole frasi o commettendo fallacie. Quindi, pensiamo sempre per prima cosa che la persona con cui parliamo non voleva proprio attaccarci, e anzi potrebbe essere necessario spiegargli perché ci ha infastiditi. Se il nostro interlocutore, invece, ci attacca davvero sul personale, è ancora più importante mantenere la calma e non rispondere alla provocazione (magari involontaria) riportando la discussione su binari razionali. Frasi come “la mia vita privata non è rilevante”, “non vedo come quello che sono possa cambiare il senso del mio argomento” sono un ottimo modo per chiarire le cose e per darci la possibilità di chiudere la discussione se il comportamento sgradito viene reiterato. “Stavamo parlando dell’argomento X, se invece dobbiamo parlare di come sono io la conversazione non m’interessa” è un modo legittimo ed educato di troncare un discorso. Ricordiamoci anche, in contesti social(i), che l’opinione e il giudizio di perfetti sconosciuti dovrebbero scivolarci addosso: diamo un po’ di credito alla nostra autostima e cerchiamo di scrollarci di dosso le opinioni sgradite di gente che non conosciamo né magari rivedremo mai più.
3. Non rispondere subito. Se qualcosa ci fa girare le palle come il rotore del girante di una turbina Pelton, al punto che ci si potrebbe tranquillamente illuminare il quartiere in cui viviamo, forse è il caso di fare un enorme respiro e aspettare prima di rispondere. Questo è ovviamente più facile scrivendo, ma anche durante una discussione verbale può essere utile fare mente locale e schiarirsi le idee (andare in bagno e sciacquarsi la faccia non è un crimine, a differenza del perdere la calma aggredendo il nostro interlocutore con un rastrello). Attenzione perché a volte dopo il “respirone” l’ondata emotiva riprende come e peggio di prima: il momento di calma dev’essere reale, serve a riflettere su “cosa stiamo sbagliando”, ad analizzare al volo cosa ci ha “alzato la pressione” e soprattutto serve a ricordarci che siamo in trigger e che dobbiamo uscirne prima di rispondere. Se necessario, ricordiamoci che non dobbiamo per forza convincere l’altra persona di qualcosa, ricordiamoci che magari abbiamo visto un attacco personale dove non c’è, insomma, usiamo questo momento per capire cosa ci ha fatto arrabbiare e per metterci nei panni altrui: che l’altra persona volesse deliberatamente farci incazzare (o ferirci, o trattare l’argomento con superficialità, o rompere i coglioni tanto per) deve essere l’ultima ipotesi, non la prima cosa che ci viene in mente, perché possono esserci mille altre spiegazioni, opzioni e possibilità. Purtroppo l’unico modo che conosco per “imparare” è provare: più si riconosce l’incazzatura, più si riesce a reagire e a trasformare il “respirone” in un reale momento di stop utile a riprendere a discutere serenamente (e ve lo dice uno che di solito il respirone lo fa per urlare più forte, non aspettatevi che sia facile).
4. Chiedi quale bisogno non è stato soddisfatto. Bam! Questa è tosta. No, non è vero, è un’altra cosa abbastanza naturale, ossia: il trigger nasce, 99 su 100, dalla frustrazione. L’incapacità di spiegarsi, la sensazione di non essere capiti, la sensazione di essere malgiudicati, la consapevolezza di essere stati colti in fallo: che l’origine della nostra incazzatura sia una discussione che ci ha fatti sentire inadeguati o quella cazzo di vite che non riusciamo ad avvitare perché abbiamo il cacciavite sbagliato, spessissimo il motore della rabbia è sostanzialmente un eccesso di stress. Tanto che, lo saprete tutti, più siamo stressati per cazzi nostri (il lavoro, i conti da pagare, un guasto alla macchina) più è facile che litighiamo con qualcuno, anche per cose di poco conto, perché la nostra soglia di frustrazione è già alta e subirne dell’altra, magari inaspettata, è la classica goccia che fa traboccare il vaso. La frustrazione è una mancanza: la mancanza di appagamento, soddisfazione, rivalsa. Dovete capire cosa vi manca, valutare se è realistico poterlo ottenere, e agire in modo da soddisfare quel bisogno o comunque imparare a gestirlo. Se l’argomento stupro ci fa scaldare velocissimamente a meno che l’interlocutore non dica subito e immediatamente che è un reato orribile e che le vittime non hai mai colpe (cosa che dovrebbe essere scontata), probabilmente è a causa di un trauma subito da noi o da qualcuno a noi caro, o la paura di dover ancora spiegare a qualcuno concetti ovvi. Io ho questo problema col bullismo: se qualcuno tira fuori l’argomento “eh, ma i bulli sono normali, vanno ignorati” devo fare il famoso respirone per chiedere lumi e argomentare razionalmente anziché esplodere in un “io invece ignorando le ho sempre prese, però hanno smesso alla prima testata sul naso, vediamo chi ha ragione: adesso inizio a bullizzarti a sangue, tu ignorami e si vede come va a finire”. L’argomento mi ricorda un trauma subito (e per fortuna poi superato), mi ricorda che il mio bisogno di protezione non è mai stato soddisfatto da nessuno e che ho dovuto “pensarci da solo”. Questo mi fa scattare: nella frase banale dell’interlocutore vedo riproposto l’atteggiamento omertoso, indifferente e minimizzante che mi ha fatto male in passato, e questo frustra il mio “bisogno” di sicurezza, facendomi passare in modalità “aggredisci per non essere aggredito”. Ma adesso non sono in quella situazione: sto discutendo con una persona di un argomento. E se voglio ottenere qualcosa dalla discussione, la mia risposta “de panza” è assolutamente controproducente: se voglio far passare la mia idea è meglio cercare di capire cosa intende l’altra persona, perché la pensa così. Meglio calmarsi e provare a farla ragionare sul fatto che il bullo è un carnefice e la vittima di bullismo, beh, è una vittima; dev’essere la società (sia intesa come Stato e sue emanazioni che percorsi di formazione personale accessibili e sicuri) a fornire a chiunque tutele e strumenti per non essere vittima di nessuno. Fra parentesi: notate come nella mia risposta “istintiva” tutta la parte relativa alle istituzioni non ci sia: l’embolo ha lasciato solo la parte “vendicativa” del ragionamento, quella più arrabbiata e aggressiva. Proviamo a pensare ai nostri ultimi “argomenti trigger”: perché ci fanno incazzare? Cos’è che ci “tolgono”, che minacciano, che mettono in discussione? Capirlo, ve l’assicuro, fornisce un vantaggio enorme.
5. Empatia uber alles. Che poi è uno dei “punti cardine” dell’Aia Furibonda. Finora ho parlato di noi, di quello che possiamo chiederci, di ciò che possiamo analizzare nel nostro modo di reagire e rispondere per evitare di sbuffare fumo come Paperino quando si arrabbia per una marachella dei nipoti. Una volta che abbiamo imparato a riconoscere i nostri argomenti trigger e a gestirli, però, dobbiamo anche imparare che gli altri sono nella stessa situazione. Ricordate la frustrazione? Chi sbraita contro i radical chic boldriniani buonisti è frustrato: perché è insoddisfatto della sua vita e pensa che il “radical chic” ne abbia una migliore (e immeritata), è spaventato perché gli hanno fatto credere che c’è un nemico che lo minaccia, e così via. Chi gli risponde ragliando che dovrebbe essere abolito il suffragio universale è parimenti frustrato: perché è spaventato che populismo e anticulturalismo facciano danni, perché si sente culturalmente superiore ma non ottiene nessuna soddisfazione da questa superiorità, perché si sente minacciato da persone che, nella sua ottica, sono quello che lui ha faticato per non essere. Ecco: se entrambi provassero a capire le motivazioni altrui, e provassimo a esporre il nostro punto di vista con una domanda che inizia con “capisco che la situazione possa generare [fonte di stress], e capisco le tue motivazioni, ma non hai mai pensato che…?” potrebbe essere l’inizio di una conversazione sensata. Se così non fosse – perché a volte c’è comunque un muro dall’altra parte – almeno ci abbiamo provato nel modo migliore possibile e senza incazzarci. “E questo”, citando Gandalf, “è un pensiero confortante”.
Bonus: non tutte le discussioni sono meritorie d’attenzione. Sempre per la serie “e grazie al cazzo”, non è che siamo moralmente obbligati a dire la nostra sempre e comunque. Non solo perché non è affatto detto che su quell’argomento abbiamo ragione, ma anche perché non possiamo convincere tutti delle nostre idee e soprattutto non ha senso discutere con l’umanità intera una persona per volta. Senza contare che, anche senza fargliene una colpa, le persone ottuse, retrograde o pervicacemente conservatrici esistono. Se parlate con qualcuno che, menzionando le elezioni, esclama (senza finalità ironiche consentite dal contesto) “il problema è che votano anche le donne”, non è che – trigger o non trigger – possiate farci granché.
Quindi, accettate un consiglio da Papero: se vedete un idiota abissale con idee completamente opposte alle vostre che magari si esprime a latrati, lasciatelo perdere. E no, non scriveteci uno status passivo aggressivo su Facebook: tanto lui non lo leggerà, non lo capirà o non gliene fregherà un cazzo. Anzi, bloccatelo. Provare a convincerlo che si sbaglia non è compito vostro ed è probabilmente oltre le vostre forze. Investite le vostre energie, invece, nel provare a cambiare le cose in modo che quel tipo di comportamento sia sempre meno tollerato: scrivete su un blog, aprite un canale youtube, entrate in politica, fate attivismo. Magari la frustrazione aumenterà, ma magari no, e allora sarà meglio per tutti (e soprattuto per voi!).
Buona settimana a tutti.
[Marco Valtriani]