Ci sta che mi sia perso qualche puntata. Anche più di una. Così come ci sta che non mi metta a scrivere con animo sereno e pacioccoso: l’argomento mi è ostico, mi invelenisce, è come avvertire un fastidio perpetuo che poi, quando ti ci soffermi col pensiero, si trasforma in una violenta pustola anale che non ti permette di star seduto comodo a farti i cazzi tuoi.
Ci sta che mi sia perso qualche puntata. E però non è uno di quei programmi tv, di quelle serie, che anche se ti perdi un pezzo alla fine non è cambi molto nell’economia narrativa generale; più o meno, lo sai già dove si va a cascare. Cliché, tutte robe più o meno giù viste, che si ripetono sempre uguali a se stesse pur nelle loro sostanziali differenze. Archetipi.
E però io ve lo devo dire, ragazzi: io, che Travaglio e il Fatto Quotidiano facessero ‘sta finaccia, proprio non me l’aspettavo. Ve lo giuro. E infatti questo non è mica un articolo, ma quando mai. Non è neanche, o perlomeno, non mi sono seduto al pc per scrivere invettive, lezioni su come si fanno i giornali, su come si dovrebbe fare il lavoro di giornalista. Per carità. Preferirei farmi bastonare a sangue da un gruppo di ultracattolici di Verona, città della vita.
Non è un articolo, non è un’invettiva, non è una lezioncina. Non vuol essere neanche una presa per il culo, tanto cara ad un certo tipo di giornalisti più che ad un certo tipo di giornalismo: nomignoli sempre meno ad effetto, che spesso trasudano più violenza becera e grondante sangue che ironia. E a poco servono i costanti richiami a Longanesi, Montanelli, Flaiano. Come se citarli ogni venti minuti servisse a qualcosa, un rito magico che ne capti la benevolenza, forse; o forse, una strizzatina d’occhio a chi questi nomi non solo li conosce, ma li venera. “Infilarti delle penne in culo non fa di te una gallina”, dice Tyler Durden in Fight Club. Ecco, preciso.
Niente articolo, dunque, né invettive, né lezioncine. Niente prese per il culo. Ci sarà qualcun altro che tenterà di spiegarvi come la sentenza che condanna il Fatto Quotidiano per degli articoli su Tiziano Renzi in realtà nasconda qualcosa a cui tutti abbiamo assistito. A cui nessuno di noi è riuscito ad opporsi, ossia la mutazione genetica di una persona, di un giornale, di un pubblico di lettori e poi sempre più di non-lettori. Nel suo editoriale “autodifensivo”, Travaglio spiega come il Tribunale abbia riscontrato il reato di diffamazione “solo in alcune parole di alcuni titoli”. Ma lui poi, lui il Fatto, hanno sempre scritto la verità.
Quante volte avete detto alle persone, negli ultimi tempi, “ma almeno hai letto l’articolo?”. Perché è così che funziona. È così che siamo diventati, forse, pure noi geneticamente modificati tipo pere williams al sapore di cocomero. E dai, cazzo, lo sanno anche i bambini che le “civette” fuori dalle edicole strillano solo per far comprare il giornale. Una versione ante litteram del CLIKKA QUI!!1 moderno. Lo sa anche il gatto che ci sono giornali che hanno fatto la propria fortuna con i titoli e poco più. Lo sa anche il gatto che certi giornali fanno titoli che fanno scientemente arrabbiare un sacco di gente. Lo sa anche il gatto che c’è gente pagata per far questo, dai tempi dei tempi.
Ah no, cazzo. Avevo detto che non sarebbe stata una lezioncina, avete ragione. Scusate, ma mentre picchietto su questi tasti infarciti di lettere e numeri e punti lo sapete come va a finire: va a finire che uno vorrebbe dipanare i suoi pensieri, vomitarli fuori, che poi uno si sente meglio. Uno si sfoga. E invece a me capita quasi sempre il contrario, è sempre stato così. Non posso farci nulla: io quando scrivo il più delle volte m’incazzo come una iena e va a finire che mi lascio andare. C’è il sangue nelle dita, parecchio sangue. Ma niente lezioncina, dunque non vi dirò di come questa sentenza sottolinei come siano diventati i titoli il motore quasi unico della sedicente informazione. E di come il Fatto sia diventato come Libero, il Giornale. Robetta.
Ecco, sì. Ecco cos’è questo agglomerato contorto di pensieri e parole: una lettera d’amore. Belle le lettere d’amore, vero? Vi hanno mai scritto una lettera d’amore, a voi? E voi, ne avete mai scritte?
E non sto parlando di freddi pixel. No, sto parlando di carta impregnata d’inchiostro, profumata, meravigliosa. Spero riusciate a sentirlo, il profumo, anche se state leggendo queste parole attraverso uno schermo.
Questa è una lettera d’amore, la lettera d’amore di uno che ci ha creduto, ma che ci ha creduto davvero: di uno che una mattina d’autunno del 2007 decise di andare a Pianaccio, per salutare per l’ultima volta il suo eroe. E porca miseria, quante lacrime. Seguii il feretro di Enzo Biagi piangendo, camminando a fianco di chi per me avrebbe raccolto la sua eredità: Marco Travaglio. Lo lessi, il dolore nei suoi occhi. Era vero, ve lo giuro. Non sto scherzando, io me lo ricordo come fosse successo due giorni fa. C’era il sole a Pianaccio, un sacco di gente con la scorta, un sacco di persone arrivate a piedi, un paio con l’elicottero; durante la sepoltura, i partigiani di Giustizia e Libertà cantavano. E io piangevo. E anche Travaglio piangeva. Ci scambiammo uno sguardo, un attimo solo: lui era l’astro già nato, io ero un giornalistucolo che da lì a poco sarebbe tornato sulla tomba di Biagi per lasciarci accanto un pezzetto del mio tesserino dell’ordine. Cazzo, quanto ci credevo; cazzo, quanto pensavo che tutto fosse importante, molto più importante di tutto il resto.
Lo sentivo, quello che c’era: era amore. Lo stesso amore, le stesse lacrime che ho versato quando Enzo tornò in tv. “Ci sono dei momenti in cui si ha il dovere di non piacere a qualcuno”. “Personalmente sono convinto che quello che manca agli italiani, è la speranza. Ricominciamo. Posso fare soltanto una promessa. Mia madre, terza elementare, mi diceva: mai dire bugie. Ho sempre cercato, e cercherò, di darle ancora retta”.
Partecipai alla sottoscrizione per la nascita del Fatto Quotidiano. Per un certo periodo cercai con tutte le mie forze di entrarci come giornalista. Non ci riuscii, ma mi sorpresi per la gentilezza delle risposte alle mie mail di Travaglio, perfino di Padellaro. Pubblicarono qualche mio pezzo sulla piattaforma online, preludio al cartaceo. Cavolo, mi pareva un sogno. Era un sogno. Riuscivo ad amare ogni pezzo, ogni parola di quel giornale lì. Perfino Scanzi mi pareva un gigante; Gomez un fuoriclasse. Cristo, credevo che Flores d’Arcais fosse il padreterno.
Questa insomma è una lettera d’amore. Perché lo sa anche il gatto, sempre il solito di prima, che sa un sacco di cose a quanto pare, che il vero amore è quello non corrisposto. Quello che va a puttane, quello che si sbriciola, e che ti lascia lì “notte intere ad aspettarti, ad aspettare te”. Ce l’ha spiegato Dante, ce l’ha ribadito Shakespeare, ce l’ha inculcato Max Pezzali. Ed è questo ciò che provo quando vedo o sento o leggo Travaglio: amore, amore puro, quello di un cuore infranto per una promessa tradita.
Per questo, vi giuro che evito il discorso come fosse la peste per strada. Non ne parlo, non ne parlo mai, con nessuno, neanche con me stesso: soprattutto con me stesso. Lo so che vi sembrerà esagerato come ragionamento. Che non vi sembrerà neanche un ragionamento. Ma il gatto, maledetto lui, in definitiva sa che i ragionamenti, con l’amore, non c’entrano un cazzo. I ragionamenti non c’entrano con il profumo della carta e dell’inchiostro, con i profumi della montagna in novembre. “Posso fare soltanto una promessa: mai dire bugie”. Chissà se anche Travaglio si ricorda di quella promessa, di quel mattino in montagna; chissà se ci pensa almeno un secondo, prima di dare in pasto ai suoi feroci lettori di titoli la loro preda quotidiana.
[Gianni Somigli]
Leggo volentieri questo tuo spazio e tornerò a trovarti.
Intanto ti seguo…