“Castigat, ridendo, mores”.
Corregge, ridendo, i costumi. Basterebbe questa definizione in latino, ma del commediografo francese Jean de Santeul, a descrivere il campo di azione della satira. Di ogni epoca, in ogni forma. Aggiungiamoci però, visto che l’autore francese è molto meno noto del suo motto, una fonte più autorevole, un certo Orazio, a cui si deve invece una frase decisamente più sottile, ma a ben guardare persino più potente: ridentem dicere verum: quid vetat? Ovvero “dire la verità ridendo: cosa lo vieta?”. Dire la verità, ridendo, per superare le censure.
L’irrisione quindi è una parte inscindibile dell’intenzione satirica. E assumendo l’intenzione come criterio pragmatico, relativo quindi agli effetti che si vogliono ottenere, dei vari generi, la satira si potrebbe definire proprio come “intenzione di far ridere criticando qualcosa”, laddove, per esempio la commedia vuole far ridere in generale, la tragedia piangere, la cronaca informare, la saggistica insegnare, l’invettiva avversare… etc. Assunto il fatto che i generi corrispondono in un certo modo alle intenzioni che nella pratica si perseguono, ne deriva che essi rappresentino ognuno modalità attraverso cui si sostiene o si critica un’idea, più o meno di fondo, nei suoi peculiari modi. E il rapporto del pubblico con quell’idea scatena nel migliore dei casi, o meno nei fallimenti, gli effetti desiderati dai generi di cui sopra. Non solo la distinzione fra efficacia e fallimento, ma anche l’identificazione del genere (cosa è satira, cosa non è?), è data quindi dallo spettatore, che a sua volta, nel suo assecondare o meno l’effetto desiderato, si espone col suo riscontro, facendosi identificare, in un gioco di osservazioni fra autore, pubblico, contesto, che va via sempre più allargandosi.
Che cosa tu consideri divertente infatti dice molto su ciò che sei. Che cosa tu consideri triste pure. Come anche ciò che tu consideri informazione attendibile. E ovviamente cosa tu consideri degno di insegnarti qualcosa. La satira, in questo senso non fa eccezione. Ciò che tu consideri una critica fondata sulla verità attraverso la risata dice molto, moltissimo di te. La dinamica emotiva della satira, una delle più complesse, perché include miscelate in parti varie molti elementi degli altri precedenti generi (vale la pena notare che “satira”, fra i latini nacque come “satura” qualcosa dunque che contiene tutto), la porta anzi ad essere un estremo rivelatore, in quello specifico momento, di ciò che pensiamo. Una cartina di tornasole tra le più efficaci.
Giudichiamo molto le persone in base alla satira che apprezzano e viceversa ci aggreghiamo molto facilmente con chi apprezza la nostra stessa satira. La satira quindi divide, e divide più di ogni altro genere. In questo senso si può dire che è il genere “divisivo” per definizione, perché è come se attraverso un piano cartesiano trovasse un unico punto preciso in cui ottenere l’apprezzamento dello spettatore, formato dalla componente polemica e da quella comica. L’effetto di questa precisione nella scelta del suo pubblico è lo schieramento di due gruppi contrapposti: i seguaci e gli avversi. E questo la rende utile e adatta a tanti utilizzi. Uno fra questi è certamente la commistione con la propaganda.
Posto il carattere divisivo della satira, il suo rapporto con la propaganda è quello di un’ancella. E dico ancella perché è la propaganda, cioè il genere che più di tutti ha l’intenzione di convincere a fare qualcosa, di cui sono ovviamente “sorelle” la pubblicità commerciale e la professione religiosa, che spesso viene nascosta dietro la satira, molto raramente viceversa, ma adesso ci arriviamo. Purtroppo spesso infatti la satira viene utilizzata con l’intento, criticando il suo opposto, di dare indicazioni su cosa pensare e come agire, cammufando dietro la risata (che a volte scompare proprio) lo strumento educativo per la fazione che la utilizza. In inglese questo tipo di satira è detta “clapter comedy”, ovvero qualcosa che più che farti ridere ti fa applaudire perché concordi con essa. Aristofane a questo proposito ne diceva: “Ingiuriare i mascalzoni con la satira è cosa nobile. A ben vedere significa onorare gli onesti”. E quando avviene questo, quando cioè l’effetto pragmatico della satira si rovescia così chiaramente, divenendo uno strumento “per qualcosa, contro qualcos’altro” distinguerla dalla propaganda è solo una questione di punti di vista.
Ghisberto fa satira per uno di destra, ed è al servizio della propaganda destrorsa per uno di sinistra. Vauro fa satira per uno di sinistra, e così via. Voglio fare una stima a naso e per difetto: attualmente il 90% della satira a cui siamo esposti, sui social in particolare, è “clapter comedy”. Per questo abbiamo “bolle” sempre più specifiche e selezionate. La satira di questo tipo è uno degli strumenti più efficaci per selezionare il suo pubblico. E si badi, non tradisce realmente sé stessa, non diventa mai e comunque esplicitamente propaganda, semplicemente porta all’estremo il carattere divisivo della satira, anzi si potrebbe dire che porta prima la divisione e poi tutto il resto. E questo ne cambia semplicemente lo scopo, sbilanciandolo: non più l’irrisione, ma la polemica. Ancella della propaganda.
Ora, poste queste premesse teoriche, caliamole nella realtà. Diamo un’occhiata rapida alla situazione attuale, storicizzando per un attimo: in Italia negli ultimi anni molti movimenti e partiti di destra sono avanzati nelle preferenze di voto. I 5 Stelle, la Lega, Fratelli d’Italia etc… persino il renzismo nell’ambito del centrosinistra può rientrare in questa categoria, in quanto forza sedicentemente destrorsa dell’universo di riferimento. Questo, possiamo dirlo, avviene almeno da circa 10 anni, prendendo come riferimento proprio la nascita e prima capillare diffusione del M5S. E non stiamo considerando la presenza comunque costante di Forza Italia e della destra propriamente neofascista, solo per brevità. Bene. In questi 10 anni la produzione satirica che ha riguardato tutti questi bersagli è stata enorme, massiccia, perdurante, assidua, variegata, dagli sfottò all’infotainment, diffusa dagli ultimi satiri da social network fino ad arrivare ai palchi delle prime serate, dall’uomo della strada ai politici stessi, per cui è ormai consueto irridere l’avversario.
Ripeto però un punto fondamentale per questo discorso: dagli sfottò all’infotainment. Chi ricorda il post di Daniele Rielli che fece letteralmente schizzare in popolarità il suo blog Quit The Doner in cui alla vigilia del voto del 2013 si stilava una compiuta analisi sulla pericolosità democratica del M5S? Bene. Era solo per fare un esempio, di post del genere, su tutti questi bersagli, ce ne sono stati parecchi e moltissimi hanno avuto una diffusione virale potentissima, uscendo decisamente da quello che può essere considerato un ambito di “addetti ai lavori” divenendo propriamente pop. Altro esempio, questa volta locale, il post di Francesco De Collibus alla vigilia del voto regionale in Abruzzo. Non stiamo qui a valutare quanto ciò che è stato fatto in questi termini abbia influenzato i voti. Restiamo al fatto che questi esempi ci sono e sono numerosi.
Una cosa però possiamo dirla: nonostante tutti questi sforzi di satira interessatamente di propaganda la situazione attuale è quella che è, non credo di doverla sintetizzare. Verrebbe da dire: ma allora la satira è inutile. Ma allora è tutto inutile. Ma allora a cosa servono Zoro, Altan, Antonucci & Fabbri… tutto inutile? Sì, inutile, se con la satira ti prefiggi l’obbiettivo di ottenere qualcosa criticando il suo contrario. Inutile se si pretende che una persona che attraverso il suo quotidiano ha già sviluppato un punto di vista di un certo tipo, cambi poi il suo punto di vista dopo aver visto un video di Zoro o una vignetta di Altan. E se anche lo facesse non sarebbe per la sua componente satirica, per la componente insomma che irride quelle idee precostituite. Vi risulta che, per quanto assolutamente ineccepibile dal punto di vista tecnico, qualcuno che sapete “di sinistra” abbia mai cambiato idea davanti a ciò che fa Ghisberto? Trovatemelo.
Inutile, insomma, pensare che nonostante il cammuffamento la satira agisca veramente come la propaganda. Nonostante la parentela e la complementarietà delle due funzioni, restano due comunicazioni differenti e distinte. La satira non fa mai cambiare idea a nessuno. La satira è già troppo decisamente schierata per essere convincente. La satira è interessata. Il suo rapporto con la realtà è quello che ha la tifoseria sulla partita di calcio: a livello pratico, nessuno. Il fatto che sia il tifo sia le squadre si trovino allo stadio fa pensare che ci sia interazione, ma la realtà è che le due competizioni (tifo vs tifo, squadra vs squadra) avvengono in maniera totalmente parallela. Questo perché la precisione della satira ha un unico effetto: focalizzare chi è già dalla sua parte. Laddove la propaganda agisce su un piano propositivo seducente, avendo come obbiettivo l’ampliamento della sua platea di ricettori, la satira quella platea la solidifica, la fidelizza. La satira radicalizza. Nessuno ride ed è suscettibile di una satira su cui già non ha una posizione favorevole. La satira rinforza, è un discorso demotivazionale e motivazionale insieme. Castigat ridendo mores: tu sei superiore a ciò che colpisci, tanto superiore da riderne. Ma in questo assunto non si riconosce nessuno tra chi è in qualche modo dubbioso.
Questo fa la satira, ovvero la linea comica della propaganda. Non il motivo per cui cominci a seguire una parte, ma uno dei motivi per cui continui a farlo. Ciò non significa che la satira non abbia influenza alcuna su persone che apparentemente non hanno posizione. Ma se ridi all’idea di avere la Boldrini nel sedile di fianco in macchina tu non sei realmente indeciso. Tu sei semplicemente censurato, ti vergogni di ciò che pensi della Boldrini, almeno finché qualcuno non ti libera da questa vergogna dicendoti: “Anche noi la pensiamo così, tranquillo, ridi con noi e che gli altri si fottano”. La satira è maieutica, ma non ottiene niente di ciò che già non era presente nel suo pubblico. Per questo la satira deve essere libera: perché nel bene e nel male rivela molto delle persone, anche a loro stesse.
Bene, e ora, dopo questa immane premessa, arriviamo ad uno degli argomenti più scottanti di questi giorni in termini di satira e pragmaticità: il remix di parte del discorso di Giorgia Meloni, “Io sono Giorgia”. Prima di tutto, può essere considerata satira? Al di là del fatto che, come abbiamo visto, cosa è satira dipende dall’occhio che la guarda, pare chiaro l’intento di divertimento (il remix nasce da dei dj che compongono questi pezzi per una discoteca), quindi il “ridendo” c’è. C’è un elemento di verità, di mores che viene colpito. C’è poi la proposizione compulsiva del discorso della Meloni, e averlo concentrato tutto proprio nel più smaccato artificio è esattamente quella “verità” di cui parla Orazio. Una verità metalinguistica: quel discorso, per la sua prepotente assertività, è evidentemente falso e ridicolo, questo dice nelle intenzioni quel remix. Falso e ridicolo: ecco il castigo, il colpo che, per dirla “alla Orazio”, siccome viene detto ridendo non incontra nessuna censura. Neanche da parte della Meloni. Ed è questo per molti il peccato originale di questo remix.
Certo che si sarebbe potuto fare un remix in cui a Giorgia Meloni si facevano dire cose come “Io sono Giorgia, sono una menzogna, sono ridicola, sono bigotta!”. Questa sarebbe stata certamente una satira più chiara. Ma perché più chiara? Perché chiaramente e didascalicamente di propaganda. Prendere invece il ready-made retorico della Meloni ed esporlo così com’è al pubblico ludibrio è l’operazione propriamente più sofisticata che in questo caso si poteva fare, proprio per rendere le parole stesse della propaganda parte di una loro contronarrazione. A proposito del rapporto fra satira-propaganda di cui prima, si tratta dell’opposto di ciò a cui siamo spesso abituati, ovvero di una satira travestita da propaganda. Invece di prendere parte prima di ascoltare questo remix, la parte la prenderai dopo, dopo averne riso. L’effetto straniante è immediatamente riconoscibile. Nella propaganda della Meloni è già chiaramente presente la migliore satira che le si possa fare contro, questo sembra dire quel remix. E quando dico “la migliore satira” mi riferisco al fatto che, per esempio, sul finale il pezzo risulta più chiaramente e didascalicamente satirico, ma il suo effetto è molto meno dirompente, perché persino inutilmente artefatto. Perché fare lo sforzo di far dire alla Meloni qualcosa di banalmente ridicolo quando già quello che la Meloni considera un suo vessillo lo è agli occhi del pubblico della satira?
Dopo averla identificata come satira, parliamo adesso della sua efficacia. Come dicevamo, l’unico suo effetto possibile è il consolidamento della base già presente di persone che aborrisce la Meloni e la sua retorica. Il contesto per cui il remix era fatto conferma questo: si tratta di una discoteca frequentata proprio dal cosiddetto “mondo Lgbt+” che va lì per divertirsi ed essere fomentato e confermato nella propria identità. Perciò, questo era il campo di misurazione della sua efficacia: il grado di consolidamento del suo pubblico. E qui entra in ballo la sinistra, o meglio, un certo prototipo di persona di una certa sinistra, ovvero una persona convintamente di sinistra, su un piano profondamente militante, ma non solo, cognitivamente convinta che le sue posizioni corrispondano ad un rigore direttamente morale che la colloca a un livello superiore, proprio sul piano della caratura umana, rispetto agli avversari politici.
Non stiamo qui a discutere di quanto questa sensazione di superiorità sia corretta o meno. Fatto sta che esiste, non è esclusiva della sinistra, ovviamente, ma esiste. “Professoroni”, “buonisti”… gli epiteti che questa sinistra si trova a ricevere chiariscono il modo in cui viene percepita. E questa superiorità si manifesta in molti modi, a seconda dei caratteri. Uno fra i tanti è la convinzione di avere la capacità di influire sugli altri. L’idea cioè che ciò che si fa possa avere un effetto coercitivo o seduttivo per gli altri. Ne abbia il potere. L’ultras convinto che il proprio tifo influisca veramente sulla partita. Senza considerare, invece, molto banalmente, che questo è sì in qualche modo possibile, solo e laddove l’altro questa possibilità la concede. Per il resto, semplicemente, no. E, come visto in precedenza, qual è il margine di concessione di uno spettatore, davanti ad un prodotto satirico? Infinitesimale. L’aspirazione di una certa parte della sinistra che la satira possa influire a suo dire positivamente su quelli che non sono già di sinistra è una pura e dannosa illusione. Pura illusione perché si scontra non solo con l’analisi pragmatica di ciò che la satira effettivamente fa, ma soprattutto perché si scontra con la realtà dei fatti, sempre. Chiedetelo a John Oliver e al suo infotainment di qualità stratosferica, quanto è servito per arginare l’ascesa di Trump. Pensate di essere più bravi e più intelligenti di John Oliver? Più capaci di lui di soppesare al meglio giornalismo e divertimento? Con una audience maggiore di lui? Voi che con le vostre battute al massimo potete fare una vuvuzela del terzo anello? Davvero??? Pura illusione. E dannosa.
Dannosa perché questa idea distorta porta con sé un’ombra oscura: ciò che non si pensa capace di convincere diventa automaticamente pericoloso, se non proprio connivente con l’avversario. Questo pensiero ha, rispetto alla pia illusione costruttiva, purtroppo, un vantaggio, diciamo, contingente: seppure l’analisi teorica lo smentisca, la realtà, uuuuuh, la realtà invece lo conferma alla grande! Guardate Trump, chiunque da sinistra potrà dire a chiunque a sinistra che il suo metodo di satireggiare Trump è sbagliato. Perché? Semplice, perché Trump vince. Non viene il dubbio che molto semplicemente “arginare l’ascesa di Trump” non sia nelle possibilità della satira. Ciò che infatti ha fatto John Oliver è stato dare argomenti e modi agli avversari di Trump di continuare ad avversarlo come e più di prima, deridendolo, per evitare, in fondo, che una qualche forma di propaganda di Trump faccia effetto su di loro. Fine. E non è poco. Questo, al massimo, può fare la satira: creare tanta radicalizzazione da rendere più difficile la contro persuasione. Si tratta di un effetto passivo, appunto, di consolidamento. La satira crea muri.
Quando però si pensa di poter agire al contrario, cioè convincere qualcuno a fare qualcosa, e la cosa va male, è a questo punto che intervengono questioni emotive tipiche di qualunque insuccesso: senso di colpa, frustrazione e paranoia. Emozioni che portano a considerare come innegabile e vera persino la teoria più assurda, come quella che vorrebbe la satira di per sé capace di generare consenso laddove questo consenso non c’era. Di “rendere simpatici” gli oggetti della sua derisione. Ora, la storia d’Italia, ma non solo, è vero, porta a cadere in questo insidioso tranello. Berlusconi, Beppe Grillo e adesso persino Salvini, utilizzano l’ironia e la satira in maniera massiccia, preponderante, potente. Questo fa pensare che sia quella la vera arma dialettica in loro possesso. Lo fa considerare perché quella è l’arma più dolorosa per chi li avversa. La più evidente. Ma è la mano che si agita mentre l’altra fa il prestigio. La satira, come dicevamo, schiera. Per chi è colpito dalla satira la sensazione è di pura sofferenza, di rabbia, di avversione. Lo stiamo vedendo adesso chiaramente, forse come non mai, davanti all’ironia truce di Salvini su ogni questione delicata. Ma quella non è l’arma dialettica con cui Salvini convince qualcuno a seguirlo, a votare per lui. Quella è l’arma con cui dice a chi lo segue: guardate come sono forte, irrido il nemico, e lui si abbotta di Maalox. Che è esattamente quello che fa ogni autore satirico nei confronti dell’oggetto della sua satira, fosse anche se stesso.
Ma l’arma con cui Salvini porta la gente a stare con lui è la politica, la tecnica elettorale, la tecnica del compromesso, dell’affare, del malaffare, della spregiudicatezza, dell’opportunismo e dell’incoerenza. E infine c’è la propaganda, la diffusione di messaggi che dicono al suo pubblico “non vergognatevi di come siete, voi siete come me, io sono come voi, noi siamo insieme, cioè: noi vogliamo la stessa cosa perciò votate per me che la faccio io per voi.”
Questa è in sintesi la propaganda, la vera tecnica di convincimento, la base della persuasione, ciò che ogni personal trainer impara alla prima lezione. Ma la satira, in questo, non c’entra. La satira arriverà dopo, per solidificare ciò che si è già piantato. Gli insuccessi della sinistra arrivano quando manca questo elemento qui, la persuasione. Diciamola tutta, quando è preponderante la presunzione che non ci sia bisogno di dire “come e perché” le persone siano e debbano essere di sinistra e stare insieme, perché si considera quest’area ideologica un’entità aprioristica, platonica, immanente, un mare già esistente da cui i partiti, molti, devono semplicemente pescare. La realtà sta dicendo a quest’area l’esatto opposto. E quel mare a furia di muri (anche satirici) è diventato uno stagno. Uno stagno in cui si sta stretti, uno stagno in cui è facile dare le colpe agli altri per la sconfitta, uno stagno in cui tra l’altro si finisce per introiettare in sé stessi l’opposto di quella superiorità morale da cui si era partiti, per trasformarla in soggezione, talmente proporzionalmente forte che non ci si rende nemmeno conto di quando si finisce davvero, realmente, per fare favori tattici all’avversario politico.
Come quando per sbeffeggiare chi balla e si diverte sulle note di un remix si condivide acriticamente il post in cui la Meloni millanta la propria forza, annunciando di stare traendo vantaggio da quella satira, esaltandone così involontariamente la più limpida e provocatoria propaganda. Il paradosso: chi diceva che il remix faceva un favore alla Meloni perché ne condivide implicitamente la propaganda, per dimostrare la sua tesi, ne condivide acriticamente la propaganda reale, collaborando all’unico fallimento possibile per quanto riguarda lo scopo pragmatico di quel remix: ovvero consolidare e unire l’area avversa alla Meloni. Un fallimento però a sua volta fallito, come dimostrato dai numeri e dalla diffusione di quel remix, con l’idea persino di renderlo inno delle prossime manifestazioni di orgoglio sessuale. Guardacaso, cosa fa un inno? Convince gli avversari o esalta i compagni? Cosa fa un coro allo stadio? Sia chiaro, non intendo dare colpe: la satira contro la destra poteva e può fare benissimo a meno del remix “Io Sono Giorgia”, e niente cambierà se lo si critica, censura o altro. Però questo approccio così divisivo sulle modalità di sbeffeggiare l’avversario, proprio come due gruppi rivali della stessa tifoseria, è uno degli aspetti che a mio modo di vedere sono da considerare. Non per un pensiero unico, ma per un pensiero libero. Soprattutto da sé stessi. In questo momento storico in cui da ogni parte arrivano nuove minacce ai diritti conquistati e freni a quelli ancora da conquistare, potrebbe essere utile chiedersi qual è l’effetto inibitore delle proprie posizioni nel momento in cui si cerca di fermare qualcosa che esalta l’identità della propria parte, confondendola con ciò che ha qualche minima possibilità invece di ampliarla, che invece si chiama, come detto sopra, la politica, dove si gioca veramente la partita, dove c’è la palla.
Ah, un giorno parleremo anche di quella stronzata che è la convinzione per cui non esiste pubblicità negativa, e che il mondo vada avanti a colpi di “purché se ne parli”, cosa a cui la discussione sul remix “Io sono Giorgia” è strettamente legata, ma che per motivi di spazio e forse anche biologici, non è possibile affrontare compiutamente in questo già lungo ed estenuante, ma spero per alcuni interessante ed edificante, sproloquio.
[Franco Sardo]
PS: Per chi volesse c’è questa interessante intervista di Daniele Fabbri a Mem, l’autore del remix “Io sono Giorgia”. Non condivido l’idea di fondo e perciò lo scopo dell’intervista, ma Fabbri sa assolutamente il fatto suo riguardo a ciò che dice, dal suo punto di vista, cioè quello di una satira che sostanzialmente ha come scopo la provocazione.
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La vignetta in copertina è di Alessio Spataro, che ringraziamo per averci consentito di utilizzarla (NdR)