La rivoluzione vaffanculturale


intervento in scioltezza di Elena Tosato.

Di ritorno dall’incontro con l’ambasciatore statunitense Thorne il deputato – pardon, cittadino – Massimo Baroni del M5S ha fatto la sua rivelazione alla stampa: “Abbiamo sottolineato che nel nostro Movimento non ci sono intellettuali”.
 
A me qualche sospetto era venuto già da un po’, ma poi mi ero riposizionata il microchip e non ci avevo pensato più fino a che non ho letto questa notizia.
Non è nota al momento la reazione della stampa; lo è quella dell’ambasciatore, che ha provato invano ad avanzare il nome di Dario Fo e si è sentito rispondere che – in sintesi – Mistero Buffo è ggente e non roba da profesoroni della ka$ta.
Neanche troppo tempo fa cercavano di spacciare per collaboratori diretti Stiglitz e Fitoussi, che a ben vedere sarebbero intellettuali pure loro: non è andata a buon fine, dunque nel Movimento non ci sono intellettuali e i suoi rappresentanti ci tengono anche a farcelo sapere.
Siamo realisti. Non ci si aspetta che in poche parole alla stampa venga fatta una disamina critica del concetto gramsciano di intellettuale organico, che poi c’è sempre il rischio di scambiarlo per la denominazione di un prodotto bio, come i limoni per fare il detersivo; non ci si aspetta un’analisi storica del ruolo dell’intellettuale nella politica – che ne so – da Platone a Von Neumann, e non ci si aspetta nemmeno che ci si renda conto di quanto una dichiarazione del genere sinistramente riecheggi quella, attribuita a Goebbels ma in realtà espressa da Baldur von Schirach, che diceva “quando sento parlare di cultura metto mano alla pistola”; anche perché proseguendo il parallelismo toccherebbe sovrapporre il ruolo di Nik il Nero a quello di Leni Riefenstahl, e la cosa fa un po’ impressione.
Non ci si aspetta nulla di tutto ciò, non ci si aspetta nemmeno che si riesca a capire che intellettuali e accademia non sono categorie necessariamente coincidenti; sentirsi sbandierare l’assenza di intellettuali come motivo di vanto dà sì, da un lato, la misura della scollatura culturale tra questi ultimi e quell’essere mitologico che viene chiamato società civile, ma dall’altro lato dà anche la consapevolezza che in tempi come questi è sempre bene tenere nel cassetto un passaporto in corso di validità.

Il disprezzo dell’intellettuale è merce abbastanza comune dei fascismi d’ogni sorta, tranne quando si cerca di cooptarlo e mettergli la casacca del regime; ma senza andare così lontano nel tempo e nell’abiezione, l’uscita ai limiti dell’insipienza del deputato cittadino Baroni rimanda piuttosto alla tracotanza di un Brunetta, quello che si scagliava contro il “culturame” del festival del cinema di Venezia, o del Tremonti che con la sua solita acida sicumera diceva che tanto con la cultura non si mangia, o delle inimitabili epopee leghiste. Poi però in compenso avevamo le poesie di Sandro Bondi.

Ecco che, visto che è stato evocato il recente passato, viene immediato pensare ai danni di trent’anni di egemonia culturale (con buona pace del succitato Gramsci) berlusconiana: è partita in sordina agli albori degli anni Ottanta con l’imporsi delle televisioni commerciali, che pure tanto hanno giovato all’inizio della carriera di Grillo – una cosa va detta: di esaltati millenaristi e sguaiati è pieno il web, e se Grillo non avesse potuto contare sulla popolarità data dall’essere stato un personaggio televisivo il suo blog avrebbe sì e no un centesimo dei lettori che ha. L’egemonia si è ingrassata delle prebende craxiane, ha approfittato dello sconquasso politico del ’92 ed è deflagrata negli ultimi vent’anni travolgendo a poco a poco ogni aspetto del vivere sociale: la sua promiscuità morale solleva gli italiani dalle loro inadempienze civili e li assolve, dice loro che va bene così, incarnandone il rifiuto per le regole comuni e proponendo il sogno di identificarsi in una vita di successo pur non potendone avere una per sé, o alimentando il desiderio della miseria altrui se non si riesce ad alleviare la propria. Senza nemmeno dover scomodare troppo Umberto Eco e la sua lungimirante (è del 1961) Fenomenologia di Mike Bongiorno, ci ritroviamo con un paradigma etico, politico, linguistico ed estetico che è pregno in in ogni sua fibra di quel tipo di cultura, tanto che ci sembra quasi normale o inevitabile che sia così.
Lo svilimento del lavoro intellettuale non è roba recente, esiste almeno dai tempi in cui Socrate fu costretto a bere la cicuta: oggi questo disprezzo si è declinato in un mostro a due teste, che vede coesistere il rifugio totemico nella tecnologia e il richiamo sentimentale all’irrazionalismo fideistico e complottista che in Italia – va detto – ha sempre trovato terreno fertile quasi quanto la richiesta dell’uomo forte, meglio se un po’ puzzone.

E già prima non è che, quanto a vivere civile e amore per la cultura, fossimo messi benissimo.

Nell’attesa di quei due o tre secoli necessari per riparare ai danni fatti e nella speranza di non farne altri nel frattempo, ci tocca tenerci la dichiarazione di Baroni come uno schiaffo in faccia; siamo pronti peraltro a dimenticarla domani, quando sarà rimpiazzata da altre pacchianate del neofita di turno. Aggiungo a margine che per chiunque professi risentimento nei confronti dell’intellettualismo, e anche per chi abbia la curiosità di leggere qualcosa sulla natura della professione politica come intreccio di passione, senso di responsabilità e lungimiranza, all’incirca cent’anni fa Max Weber – evidentemente pagato da Bersani, anche lui – annotava che l’intellettuale ha l’obbligo, per amor di scienza, di rendere palesi anche fatti imbarazzanti per la propria opinione, e che è il sacrificio dell’intelletto a condurre il discepolo dal profeta: quindi sì, Baroni dice bene, non ci sono intellettuali nel M5S, un intellettuale che corrispondesse a questi parametri Grillo lo farebbe fuori nel giro di un post scriptum sul suo blog, con due battute e una manciata di insulti ad uso del pubblico plaudente e pagante. E senza nemmeno il conforto delle poesie di Sandro Bondi.

[E.T.]

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